Wine 2.0
- diTestadiGola
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I barbari. Direi di cominciare da qui.
L’ingresso sulla scena di una popolazione nuova. Non un popolo nuovo, ma una popolazione trasversale, trans-nazionale, omologata dagli stessi gusti che la globalizzazione ha imposto.
Baricco. L’Alessandro scrittore e saggista. Qualcuno si starà chiedendo cosa c’entri con il vino, qualcuno avrà già collegato.
I barbari, anno 2006, periodo in cui Alessandro Baricco si è interrogato sul futuro dell’umanità, non dell’Italia, ma dell’umanità nel senso più ampio del termine, in quanto trasversalmente sottomessa ad una revisitazione della cultura, dei costumi e dei gusti. Un estratto del libro:
Se volete un anno, un nome e un posto, eccoli qui: 1966, Oakville, California. Il signor Mondavi decide di fare il vino per gli americani. Nel suo genere, era un genio. Partì con l’idea di copiare i migliori vini francesi. Ma non gli sfuggì che andavano un po’ adattati al pubblico americano: da quelle parti l’artista e il funzionario del marketing sono la stessa persona. Era un pioniere, non aveva quattro generazioni di artisti del vino alle spalle, e faceva vino dove nessuno aveva mai pensato di fare altro che pesche e fragole. Insomma, non aveva tabù. E fece, con una certa mestria, quello che voleva.
Sapeva che il pubblico americano era (quanto ai vini) profondamente ignorante. Erano aspiranti lettori che non avevano mai aperto un libro. Sapeva anche che era gente che mangiava spesso in maniera molto rudimentale, e che non avrebbe avuto la pressante necessità di trovare il bouquet giusto da abbinare a un confit de canard. Se li immaginò con il loro bel cheeseburger e una bottiglia di Barbaresco e capì che non poteva funzionare. Capì che se volevano avere del vino era per berlo prima di mangiare, come un drink, e capì che se l’alternativa era un superalcoolico il vino non avrebbe dovuto deluderli: e se l’alternativa era una birra, il vino non avrebbe dovuto spaventarli. Era un americano e così sapeva, con lo stesso istinto che altri misero a frutto a Hollywood, che quel vino doveva essere semplice e spettacolare. Un’emozione per chiunque. Sapeva tutte queste cose e, evidentemente, aveva un qualche talento: voleva quel vino e lo fece.
Gli andò talmente bene che quella sua certa idea di vino è diventata un modello. Non ha un nome, così, per capirsi, gliene do uno io. Vino hollywoodiano. Ecco alcune sue caratteristiche: colore bellissimo, gradazione abbastanza spinta (se uno viene dal superalcoolico, del dolcetto non sa cosa farsene), gusto rotondo, molto semplice, senza spigoli (senza tannini fastidiosi né acidità difficili da domare); al primo sorso c’è già tutto: dà una sensazione di ricchezza immediata, di pienezza di gusto e profumo; quando l’hai bevuto, la scia dura poco, gli effetti si spengono; interferisce poco con il cibo, ed è pienamente apprezzabile anche solo risvegliando le papille gustative con qualche stupido snack da bar
Da I Barbari (2006) Cap.5 – A.Baricco
Beh, credo che l’analisi sia diretta e precisa, una fotografia del Vino 2.0 che oggi domina i banconi dei Wine Bar di mezzo mondo e le mondane chiacchiere in tema enologico, quello che oggi è divenuto status, argomento da salotto, accompagnato dal vezzoso gesto del roteare il calice.
Che gli States abbiano condizionato il mondo è cosa nota, che la cultura contemporanea europea sia figlia di quella scuola di vita è altresì noto. È forse meno noto che il vino che oggi beviamo è una invenzione americana. I sostenitori della cultura europea, gli amanti del classicismo e della tradizione avranno trasalito, ma tant’è.
Cosa è successo allora? Che i Mondavi nella loro splendida tenuta in Napa Valley decidessero di fare vino secondo i gusti americani credo sia sufficientemente accettabile; nella loro cultura, per i loro gusti, un vino facile da bere, morbido ed alcolico è perfetto.
Come questo vino sia giunto fino a noi è il resto della storia. Bisogna arrivare agli anni ’80, al decennio tra il 1980 ed il 1990, quando i Mondavi capirono che per diventare un riferimento internazionale avrebbero dovuto conquistare l’impero.
Entrarono in Francia. Ma non lo fecero in punta di piedi, strinsero accordi con il Barone Philippe de Rothschild dello Château Mouton Rothschild e crearono la Opus One Winery, nel cuore del regno, nei territori del Bordeaux. E scusate se è poco!
Manca ancora un tassello. Il Marketing.
Cambiare il gusto dei consumatori di vino non è un progetto elementare, farlo nel cuore del regno ancora più difficile.
In questa opera, un apporto decisivo lo diedero enologi e giornalisti. Gli enologi, i direttori della orchestra della vinificazione, si sa, possono condizionare in maniera decisiva un prodotto. Personaggi del calibro di Michel Rolland firmano le loro creazioni e decidono ogni sfumatura del loro pargolo.
Ma il giornalismo? Beh il giornalismo del vino è un mondo fantastico, fantastico perchè il vino non è un prodotto valutabile oggettivamente.
Un’automobile, un telefonino lo sono. Lo sono nel senso che se ne possono definire in maniera oggettiva, scientifica, le caratteristiche, i limiti, i difetti.
Il vino resta oggettivo nella sua analisi chimica ed organolettica, ma il gusto è un parametro assolutamente soggettivo. Condizionabile.
Ed un buon giornalista, un professionista accreditato e considerato come Robert Parker, con le sue enormi doti comunicative, con la sua indole pacifica e rassicurante è riuscito in questo lavoro. La sua rivista, Wine Spectator con più di centomila abbonati in tutti i continenti è stata una pietra miliare nella creazione del nuovo gusto. Mai sentito parlare di “Vino Parkerizzato”?
E l’Italia? Dove si colloca il nostro bello e contraddittorio paese in questo scenario di così definitiva mutazione? Il nostro sonnacchioso bel paese è giunto con molto ritardo sulla scena del vino di qualità.
Pur possedendo tra i vitigni ed i vigneti migliori al mondo ci siamo accontentati per lungo tempo del fiasco di Chianti.
Ci pensarono negli anni settanta personalità come Angelo Gaja e Ferrucio Biondi a risollevare le sorti nazionali con le loro intuizioni e la loro immensa competenza.
Fu però a Bolgheri, nella Maremma livornese, che si può dire sia nato il nuovo vino italiano. Più precisamente nella tenuta San Guido dei Marchesi Incisa della Rocchetta. Fu qui che nel 1971 nacque il Sassicaia, vino da tavola ottenuto da Cabernet Sauvignon. Una bestemmia per la Toscana dell’epoca. Una intuizione degna dei Mondavi per Mario Incisa della Rocchetta.
Il Sassicaia ha cambiato la geografia del vino italiano. Da allora in poi è stato un fiorire di grandi vini progettati da enologi di fama internazionale che ha avuto come controparte la inevitabile omologazione agli standard più riconosciuti.
Il vino inizia a perdere l’identità territoriale per acquisire sempre più le caratteristiche di chi l’ha progettato.
Si è aperta così la strada all’omologazione, nel nome del mercato. Da qui il passo è breve, pochi anni e nasce il mercato globale, il mercato del web ed il gusto internazionale. Benvenuti a bordo.
Qualcuno starà già pensando che forse l’appellativo “Hollywoodiano” è un tantino conservativo, che tutto cambia e si evolve, che è giusto che anche il vino segua la modernità. Vero, tutto vero.
Anche condivisibile, perchè il gusto di un venticinquenne parigino, newyorkese o romano è probabilmente simile, ed è indubbiamente diverso da chi è cresciuto a pane e mosto nelle Langhe o nella Borgougne.
Restano alcune osservazioni da fare, che hanno il senso della perdita. La diversità e la profondità.
La diversità è un problema che investe oramai tanti aspetti del vivere contemporaneo, è l’antitesi della omologazione. Diversità è ricchezza per noi, omologazione è ricchezza per le multinazionali. Ci si potrebbe scrivere un libro. Lascio a voi riflettere.
La profondità. Ha a che fare con la complessità del vino. Ancora una citazione del maestro, indubbiamente più capace di me a tramettere con le parole quanto ho in mente:
“Facilmente vi verrà da cercare la sponda di un qualche cibo proprio per ammortizzare quelle sensazioni. Al sorso dopo sarà già tutto cambiato (c’avete messo di mezzo, che so, un arrosto). E simultaneamente il primo sorso sta ancora lavorando e voi capite che gustare il vino è un faccenda che non riguarda tanto il primo sorso, o gli istanti in cui lo bevete, ma tutto il tempo dopo, la storia che il vino vi racconta dopo. Per tutta la cena fate un viaggio tra sensazioni che cambiano e vi impegnano, in qualche modo, e vi ricompensano, ma con misura e con uno strano, sofisticato, sadismo. Quando vi alzate, vi spiegano che quello era un Barbaresco di una certa annata e di un certo podere: una delle tante possibilità. E le altre possibilità sono altri mondi, altre scoperte, altri viaggi. Roba da rimanerci intrappolati e risvegliarsi tempo dopo con venti chili di più e una insidiosa propensione alle vacanze enogastronomiche.
Se poi tornate al vino hollywoodiano, ne scegliete uno (magari esagero, ma sono talmente simili che potete scegliere quasi a caso) e tranquilli ve ne sorseggiate un bicchiere, seduti davanti a un’enoteca piacevole, capirete molte cose. Vi piacerà, sarete felici di stare lì, e, se non siete raffinati e colti bevitori, avrete perfino l’impressione di aver trovato il vino che avevate sempre cercato. Ma è indubbio che è un’altra cosa. Go kart, se capite cosa voglio dire. E ve lo dice uno che piuttosto di fare una vacanza enogastronomica si spara un villaggio vacanze alle Canarie (esagero: diciamo che si spara IN un villaggio vacanze alle Canarie: pum).”
Vino senz’anima. Nel suo piccolo, il microcosmo del vino descrive l’avvento, a livello planetario, di una prassi che, salvando il gesto, sembra (ho detto sembra) disperderne il senso, la profondità, la complessità, l’originaria ricchezza, la nobiltà, perfino la storia.
Vi lascio con una riflessione. La semplificazione del gusto ha permesso la massificazione e l’espansione del consumo del vino, fin qui una buona (?) cosa a non voler essere classisti.
Non sarebbe forse meglio innalzare la cultura media piuttosto che abbassare la complessità dell’oggetto di studio?? … ma questa è un’altra storia…