Il cibo degli anni sessanta. Quando perdemmo l’innocenza.
- Giustino Catalano
- Ti potrebbe interessare Opinione
Chi come me è nato negli anni sessanta ha vissuto una transizione della società dalla famiglia di vecchio stampo dove la donna era in casa e accudiva figli, casa e marito ad una società dove le nuove generazioni si incamminavano (a fatica) verso la nuova famiglia con uomo e donna entrambi occupati lavorativamente.
In un contesto tale la vecchia balia delle famiglie agiate o ricche veniva sostituita dalla mamma o dalla colf (all’epoca dei fatti cameriera) alla quale era demandata la gestione della casa.
Così chi non aveva queste chance faceva di necessità virtù e si organizzava.
In un contesto di estrema modernità (che oggi definiremmo normalità ma all’epoca dei fatti era di grande cesura con il passato) presero piede con estrema facilità i “cibi all’americana” come li chiamavano all’epoca o i già pronti come li definiremmo oggi.
Non c’è da storcere il naso sia chiaro.
Se oggi è possibile mangiare un Babà di Sal De Riso a Tokyo o una pizza napoletana congelata a New York tra le mura della propria casa è grazie a questa nuova era che si aprì in quegli anni.
Il dramma come per tutte le nuove vicende fu per chi come me la visse.
La modernità travolse casa mia anche e lo fece in due direzioni distinte ma convergenti: 1 la fascinazione del nuovo e rapido; 2 la necessità del risolvere un problema insormontabile.
Così in una casa dove la pizza si faceva partendo dalla farina e acqua per creare il lievito e poi via via con tutto il procedimento entrò lo scatolo della pizza Catarì.
Ma dico ve la immaginate la pizza Catarì in una casa napoletana?
La mossa vincente era quello “strillo” sulla scatola: “Pronta in un’ora”.
Credete casa mia sia stata una casa “pilota” nei test della “modernità”? lo credevo anche io quando mi imbattevo in compagni che avevano la mamma casalinga.
Eppure non siamo stati gli unici. Ricordo di miei compagni di scuola che la preferivano perché più croccante (la follia a Napoli).
E sul finire degli anni sessanta l’azienda produttrice (tuttora operante con versioni con lievito madre, croccanti o soffici) sublimò con le “Pizzette Catarì” che grazie a un lancio dell’allora famosissimo caratterista e comico Giorgio Bracardi ebbero un gran successo.
Degli pseudo cracker cotti con sopra origano da servire tal quali o rivisitati secondo fantasia invasero le feste e i party della nostra penisola rendendoli tutti più anonimi ancora.
Addio alle pizzette del forno sotto casa. Era arrivata Catarì. Apri la scatola ed è festa!
Ma non fu l’unico cibo che aggredì le mura domestiche.
Presto arrivarono le scatolette e non come ultima necessità e risorsa ma piuttosto come sostitutivo rapido del problema cena.
Così mia madre sdoganò la Jambonet della Simmenthal!
Un blocco di carne suina pressata (una sorta di corn beef di noartri!) che ci somministrava tagliato a fette, impanato e fritto come suggerivano alcune ricette che circolavano liberamente tra le massaie 2.0.
E alle mie rimostranze per il pessimo connubio e sapore mi suggeriva di aggiungervi qualche goccio di limone che “così è più saporito”.
La “morte civile” credetemi. E non ci trovo niente da ridere!
La Simmenthal intraprese così un cammino dove se la giocò a pari merito con la Montana a colpi di carne in gelatina e trippa in scatola.
Fu questa l’alba del tubetto di maionese, del ritorno dell’idrolitina come strumento rapido per avere l’acqua gassata che si beveva talvolta in Osteria e tanto altro che la mia mente ha forse anche rimosso per evitare di accrescere il già duro lavoro del mio psicanalista!
Ma su tutte la mossa peggiore era quella del padre che doveva gestire l’assenza di qualcosa di preparato e della consorte che lo facesse.
Cresciuto in una famiglia dove la mamma e le sorelle cucinavano e quindi rilevando come grande impresa far bollire l’acqua o friggere un uovo la risolveva con la soluzione gourmet, che magari vendeva agli amici edulcorata di particolari per fare la figura del figo: i ravioli in scatola al ragù.
Qui non sono nella condizione di proseguire nella descrizione perché il dolore è ancora tanto forte e gli occhi mi si riempiono di lacrime impedendomi di vedere bene lo schermo ma posso solo dire che se volessi comminare una punizione severa a un delinquente lo condannerei a qualche anno di ravioli in scatola.
Ma mio padre conosceva quel cibo in latta avendo fatto il soldato come tutti i suoi coetanei. E noi suoi soldati eravamo. Mica altro.
Ma forse (non sono più riuscito a riprovarci e me ne scuso con i produttori) il prodotto oggi è migliorato.
In ultima analisi, a compendio di un triste quadro che però era vissuto dalle massaie come una grandissima soluzione e di bambini che invidiavano coetanei nel sentire “oggi mamma ha fatto la cotoletta” o “ho mangiato gli gnocchi”, va anche precisato che le scatolette non erano stagnate o con film banda bianco come oggi.
Quindi l’acido del pomodoro spesso creava sinistri aloni di pseudo ossidazione che ricordavano più la ruggine che altro.
Quindi quando oggi mangiate un decente (e talvolta buono) prodotto conservato già pronto portate rispetto per gli eroi che hanno reso possibile tutto ciò!
Di formazione classica sono approdato al cibo per testa e per gola sin dall’infanzia. Un giorno, poi, a diciannove anni è scattata una molla improvvisa e mi sono ritrovato sempre con maggior impegno a provare prodotti, ad approfondire argomenti e categorie merceologiche, a conoscere produttori e ristoratori.
Da questo mondo ho appreso molte cose ma più di ogni altra che esiste il cibo di qualità e il cibo spazzatura e che il secondo spesso si mistifica fin troppo bene nel primo.
Infinitamente curioso cerco sempre qualcosa che mi dia quell’emozione che il cibo dovrebbe dare ad ognuno di noi, quel concetto o idea che dovrebbe essere ben leggibile dietro ogni piatto, quella produzione ormai dimenticata o sconosciuta.
Quando ho immaginato questo sito non l’ho pensato per soddisfare un mio desiderio di visibilità ma per creare un contenitore di idee dove tutti coloro che avevano piacere di parteciparvi potessero apportare, secondo le proprie possibilità e conoscenze, un contributo alla conoscenza del cibo. Spero di esservi riuscito.
Il mio è un viaggio continuo che ho consapevolezza non terminerà mai. Ma è il viaggio più bello che potessi fare.