Rosati, cerasuoli, chiaretti e anche alcuni furbetti?
- Rolando Marcodini
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Il taglio è una pratica enologica abbastanza comune ammessa dalla normativa europea entro certi limiti che sono però precisati dalle norme tecniche raccomandate dall’OIV (Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino)
che attualmente è presieduta dal professor Luigi Moio di Napoli ed è composta da 48 Stati da cui mancano però due fra quelli produttori più importanti e cioè USA e Canada. Lo scopo è quello di “evitare abusi e garantire un elevato livello qualitativo dei prodotti vitivinicoli promuovendo nel contempo una maggiore competitività del settore” e per gli stessi motivi l’uso di tale pratica nella produzione del vino rosato è regolamentato in maniera più dettagliata soprattutto per quei vini che non sono soggetti alle disposizioni di un disciplinare di produzione.
Regolamento Europeo
Ecco allora che il Regolamento Europeo in vigore chiarisce come un vino rosato non possa essere prodotto mediante il taglio di un vino bianco che non sia DOCG, DOP e IGP con un vino rosso che non sia DOCG, DOP e IGP. In altre parole rimane espressamente vietato il taglio tra vini generici bianchi e vini generici rossi, ma questa pratica è sempre ammessa quando il prodotto finale è totalmente destinato alla preparazione di una cuvée da spumantizzare oppure all’elaborazione di vino frizzante.
Il divieto, insomma, non riguarda spumanti né frizzanti e vale soltanto per le miscelazioni di vini (o mosti) senza tutela di origine o di indicazione geografica. Questo, però, non deve farci pensare che sia liberamente consentita la miscelazione per i prodotti DOCG, DOP e IGP. La produzione dei rosati DOP o IGP non può che seguire le prescrizioni contenute nei rispettivi disciplinari nazionali che sono normalmente più restrittive.
Il divieto del taglio
per i vini rosati generici, in definitiva, nasce dall’esigenza di impedire che sul mercato dell’Unione Europea circolino prodotti a basso costo e senza particolari controlli di qualità, ottenuti da semplice miscela di vini e non già da vinificazioni rispettose della materia prima e delle tecniche produttive più tradizionali.
L’Unione Europea continua dunque a porre alla pratica del taglio dei limiti relativi all’origine dei prodotti utilizzati e dei limiti attinenti alla produzione dei vini rosati, nonostante numerosi tentativi fatti nel recente passato per abolirli, il più pericoloso nel 2009. Nel gennaio di quell’anno era stato approvato un progetto dai rappresentanti degli allora 27 Paesi dell’Unione Europea che l’avevano sottoposto al WTO (World Trade Organization) per i necessari 60 giorni di esame e che, in assenza di sostanziali obiezioni, doveva essere approvato il 27 aprile dalla Commissione Europea, anche se a prescindere da norme, leggi o disciplinari, sono soltanto i produttori i veri custodi delle vigne che lavorano e i coprotagonisti dei risultati che ne derivano e questi, alla divulgazione della notizia nel marzo precedente hanno dissotterrato l’ascia di guerra e sono insorti in massa per garantire ai propri vini la necessaria qualità.
Lo sappiamo già
Quando i vignerons francesi s’arrabbiano fanno danno. No, non parlo di quelli che avevano organizzato una enorme protesta civile a Bruxelles per bloccare il progetto, ma parlo di quelli che in Languedoc, a fine Febbraio, avevano attaccato l’edificio del ministero francese dell’agricoltura, organizzati dal Comité Régional d’Action Viticole. Qualche giorno dopo, il 1° Marzo, ignoti bombaroli hanno piazzato due cariche esplosive al Domaine de la Baume, a poca distanza da Béziers. L’11 Marzo, prima dell’alba, un commando aveva svuotato otto enormi tanks pieni di 11.000 ettolitri di vino bianco, rosso e rosato della cooperativa Vignerons des Garrigues di Nîmes, scrivendo con le bombolette la sigla CRAV sulle pareti dei recipienti ormai vuoti e nei giorni successivi si stavano già preparando nuovi episodi di escalation di questa rivolta annunciata contro la Commissione Europea.
Erano diversi anni che i rivoltosi del CRAV si muovevano in modo anche piuttosto violento contro gli importatori francesi di vini italiani e spagnoli destinati a essere miscelati con quelli locali che risultassero “deboli”.
Il Languedoc è la più grande regione vinicola della Francia
e se per gli appassionati di vino rappresenta oggi una positiva rivoluzione per la qualità, la sperimentazione e la ribellione alle più fossilizzate norme vinicole francesi, ha sempre avuto comunque anche un’altra faccia: laggiù c’è un vero oceano di vinacci che non si riesce a spacciare neanche a prezzi stracciati e perciò hanno davvero bisogno di esser tagliati con quelli di base che sono perlomeno migliori e che si trovano in abbondanza in Puglia, Sicilia e Spagna.
Ve li ricordate, no?
Quelli che avevano sempre rovesciato volentieri le cisterne straniere sulle strade e che erano arrivati anche a gettare le molotov e a incendiare le macchine. La regione Languedoc offriva dei soldi per l’espianto delle vigne non più adatte a fare buon vino, ma questo non era bastato a estinguere il fenomeno e non ci si poteva nascondere che quelle obsolete continuavano a fare ancora la parte del leone proprio nella produzione di quei vini che non voleva comprare nessuno e che la Commissione Europea stava bellamente per legalizzare. Non solo rosati da miscele di generici bianchi e rossi, comunque, ma anche altre ciofeche.
Fra i vignerons in lotta emersero due posizioni distinte. Non potevano certamente pensare tutti, allo stesso modo, che buttare dei buoni vini di provenienza italiana nei fiumi potesse invogliare il consumatore francese di vino a bersi piuttosto (e magari a vomitare) quell’autentica pipì che veniva dalle loro vigne.
Gli ottimi produttori francesi
che hanno sempre piazzato le loro buone bottiglie a un prezzo giusto non hanno mai avuto grossi problemi di vendite e non hanno mai temuto l’importazione. La temevano invece (e s’infuriavano e si scatenavano come hooligans) soprattutto quelli che producevano vini che nessuno voleva bere. Anche là in Francia ”nisciùn è fess”. Il mercato era cambiato e per chi non riusciva ad adeguarsi era sempre più dura.
Dopo anni di noia a causa di vini molto strutturati e corposi, carichi di tannini e di legno, adatti alle pietanze più elaborate di lunga preparazione, il modo e il ritmo di lavorare era mutato e richiedeva ricette più semplici e veloci, perciò un numero sempre più alto di consumatori cominciava a preferire vini più semplici, di pronta e piacevole beva, freschi, delicati e di tenore alcolico decente, ma non esagerato, da gustare con quasi tutte le pietanze e specialmente con quelle leggere sia casalinghe che del fast-food o dello street-food.
Anche nei ristoranti e nei wine-bar si cominciava finalmente a sentire risposte più qualificate alla fatidica domanda di rito “bianco o rosso?”
e a vedere sempre più rosé in tavola e sui banconi. Un successo meritato grazie alle versioni prodotte da uve nere vinificate in bianco, lasciando macerare il mosto con le bucce per poche ore, quanto basta per estrarre un po’ di sostanze aromatiche e una bella tinta rosata, a volte pallida e a volte corallina a seconda dell’esperienza e delle virtù del produttore. Vini che piacciono, soprattutto con i panini, i tramezzini, i toast, la cucina espresso e le novità orientali.
La nuova direttiva europea che voleva permettere di mischiare un rosso con un bianco per creare un rosé senz’arte né parte era perciò anacronistica e andava rigettata anche con la lotta più dura, proprio come quella.
Infatti non se ne fece più nulla e anzi, nel 2013 è stato adottato il Regolamento UE n° 1308/2013 del Parlamento europeo che è stato integrato il 12 marzo 2019 dal Regolamento Delegato UE n° 2019/934 della Commissione Europea per quanto riguarda le zone viticole in cui il titolo alcolometrico può essere aumentato, le pratiche enologiche autorizzate e le restrizioni applicabili in materia di produzione e conservazione dei prodotti vitivinicoli, la percentuale minima di alcool per i sottoprodotti e la loro eliminazione, nonché la pubblicazione delle schede dell’OIV.
Una bella vittoria
che ha ribaltato sul campo una strategia europea secondo cui prima ancora di ogni altra considerazione tecnica o qualitativa vengono i grandi numeri ai quali la tipicità e le tecniche di produzione tradizionali possono sembrare d’ostacolo e che verrebbero perciò riservate soltanto ai prodotti di nicchia DOCG, DOP e IGP.
C’è anche il rovescio della medaglia, però! Ma se quei vini risulteranno sani, che c’è di male? In alcuni Paesi qualche rosato lo stanno già facendo mischiando bianchi e rossi, senza fare troppo rumore, vedi Australia, California, Sud Africa e… ma sì, anche nella stizzita Francia.
Sono dei vini che permettono a questi Paesi emergenti (tra cui vedremo presto anche la Cina…) di conquistare i nuovi mercati dell’Europa orientale, più povera come redditi medi, ma che se venissero fatti anche in Italia ridurrebbero i quantitativi di quei vini bianchi e rossi destinati alla distillazione perché non trovano clienti. Se la qualità è un pregio, lo spreco è comunque un peccato, o no?
Lo Szamorodni
Ricordo che molto tempo fa in Ungheria i braccianti polacchi assunti per le vendemmie nella zona di Tokaj s’inventarono un vino che non esisteva prima, lo Szamorodni. In polacco significa “così come viene” ed è stato allora prodotto con i grappoli scartati dalle raccolte manuali fatte per consegnare subito alla cantina solo le uve sane per la vinificazione immediata e lasciare sui tralci soltanto i grappoli più adatti a essere attaccati dalla muffa nobile Botrytis Cinerea per accrescerne di molto il tenore zuccherino naturale.
In origine questo vino derivava proprio dai grappoli lasciati a terra da quei braccianti che facevano la prima selezione e che ottennero il permesso di vinificarli per consumo personale, dato che non avevano un valore commerciale. È un vino che non mi piace, ma a Tokaj ha un prezzo decisamente popolare e ottiene un grande successo in Polonia e dimostra che gli Ungheresi non sono così scemi da buttar via ciò che gli altri acquistano volentieri.
Oggi è regolato da una denominazione d’origine che prescrive quanti anni d’invecchiamento (due), quando si può interrompere la fermentazione, eccetera, quindi è considerato un vino di una certa qualità, anche, diciamolo pure, sullo scalino minimo ammissibile dal Regolamento europeo. Ma è sano, fa cassetta e infonde il buonumore sufficiente a chi se lo compra. Anche il topolino vuole la sua parte…
Ha smesso di giocare in cortile fra i cestelli dei bottiglioni di Barbera dello zio imbottigliatore all’ingrosso per arruolarsi fra i cavalieri di re Nebbiolo e offrire i suoi servigi alle tre principesse del Monte Rosa: Croatina, Vespolina e Uva Rara. Folgorato dal principe Cabernet sulla via dei cipressi che a Bolgheri alti e stretti van da San Guido in duplice filar, ha tentato l’arrocco con re Sangiovese, ma è stato sopraffatto dalle birre Baltic Porter e si è arreso alla vodka. Perito Capotecnico Industriale in giro per il mondo, non si direbbe un “signor no”, eppure lo è stato finché non l’hanno ficcato a forza in pensione da dove però si vendica scrivendo di vino in diverse lingue per dimenticare la bicicletta da corsa, forse l’unica vera passione della sua vita, ormai appesa al chiodo.