Cosa è rimasto dei vins de garage dopo trent’anni?
- Rolando Marcodini
- Ti potrebbe interessare Autori, Un sorso di
Dopo la pubblicazione, mercoledì scorso, dell’articolo piuttosto critico di Marek Bieńczyk sul fenomeno dei vins de garage, nati a Bordeaux nei primi anni ’90 del secolo scorso su iniziativa di una manciata di intraprendenti vitivinicoltori che si erano proposti di creare grandi vini con pochissimi mezzi, penso che sia meglio proporre un aggiornamento in proposito.
Ai dubbi, alle domande e alle preoccupazioni dello scrittore enocritico polacco saranno state date delle risposte?
Poiché da un decennio non si è più sentito parlare di quei vini durante le degustazioni internazionali fra esperti, la curiosità di sapere che fine hanno fatto dopo trent’anni dalla loro comparsa quei tanto strombazzati vini bordolesi diventati famosi però come… fantasmi, perché se ne parlava molto, se ne scriveva molto, si raccontava molto, ma quasi nessuno è poi riuscito a vederli con i propri occhi a causa della minuscola quantità di bottiglie prodotte e dei prezzi straordinari.
Del resto anche in Italia abbiamo avuto le nostre stelle comete che, dopo la comparsa nel firmamento del vino con delle parabole mirabolanti all’inizio e un successo strepitoso per un decennio, erano poi svanite dalle prime pagine dei giornali.
Ricordo, per esempio, i supertuscan, un fenomeno che si era scatenato nel mondo del vino italiano negli anni ’70. Era nato per la rinascita qualitativa dei vini toscani dopo il declino provocato allora da una massa di vini ”Chianti“ di largo consumo di massa, privi di personalità, fatti secondo la legge ma simili uno all’altro come gocce… (di vino?).
Vi si sono mai rizzati i capelli sulla testa per quella marea di Chianti con la fascetta rosa, cioè garantiti (per così dire) dalle commissioni di degustazione delle camere di Commercio, eppure reperibili presso le cantine a poco più di 2 euro la bottiglia e che si dimostrano soltanto un pallido ricordo di quello splendore di vino che si era conquistato i favori di tutto il mondo almeno fino a cinquant’anni fa?
Ecco, la ”rivoluzione” dei supertuscan, fatti da una minoranza di aziende che hanno continuato a produrre battendosi come veri leoni per rimanere ai vertici di quella qualità certa e competitiva ereditata dalla tradizione e sforzandosi di migliorare ancora, non è riuscita a imporsi.
Il fenomeno è rientrato silenziosamente nella normalità e sugli scaffali più bassi dei supermercati ci sono ancora Chianti di largo consumo alla portata di tutte le tasche con la loro fascetta ministeriale in bella evidenza.
Sono ancora privi di tutto ciò che è importante nel vino, cioè la personalità, il carattere, l’anima, come se da qualche parte a Firenze esistesse un enorme tino dove si mescolano tutti i vini del circondario per poi imbottigliarli come vino DOCG ed etichettarli per diversi produttori dalle sigle incomprensibili e non ci rimane perciò che sperare nell’apporto della nuova Gran Selezione.
Il caso dei vins de garage poteva perciò sembrarmi abbastanza simile, dato che sulle rive della Gironde la superficie vitata si è moltiplicata più volte e ci sono in giro dei Bordeaux a poco prezzo che a quei Chianti fanno pure concorrenza, ma nel considerare le differenze tra la mentalità enologica dei cugini d’oltralpe e la nostra, che sono ancora notevoli, ho preferito approfondire l’argomento. Solleticato, dunque, dall’articolo di Marek Bieńczyk, mi sono informato meglio a proposito dei primi produttori di trent’anni fa e del loro entusiasmo di allora.
Cosa sono esattamente i vins de garage?
Secondo la definizione del Conseil Interprofessionnel du Vin de Bordeaux (CIVB), un vino da garage si riferisce a ”una microcuvée prodotta in piccole quantità”. L’avventura dei vins de garage è cominciata all’inizio degli anni ’90 a Saint-Émilion. A Michel Bettane, uno dei principali critici enoici francesi si attribuisce il merito di aver coniato il termine vins de garage e di aver definito garagistes quei vitivinicoltori nei suoi articoli pubblicati della Revue du Vin de France in cui aveva lavorato fino al 2004. Ma questi termini sono stati immediatamente resi popolari dall’americano Robert Parker di ritorno da una sua prima visita a Château Valandraud.
Il pioniere di questo “garage”, Jean-Luc Thunevin, gli aveva riferito di un’esclamazione di Florence Cathiard, comproprietaria dello Château Smith Haut Lafitte a Pessac-Léognan che, dopo aver visto la modesta sala di vinificazione di Château Valandraud, gli avrebbe detto: «Ma Jean-Luc, tu fai il tuo vino in un garage!».
Jean-Luc Thunevin si era ispirato a Château Tertre Rotebœuf di Saint-Émilion e a Château Le Pin di Pomerol, ma soprattutto a Le Pin di Jacques Thienpont che, secondo sua moglie Fiona Morrison, master of wine e manager di entrambe le tenute, non considera Le Pin come un vin de garage, anche se si tratta di una microcuvée molto riservata.
La differenza, secondo Fiona, è che la filosofia dei vins de garage è interventista, perché gestisce tutto fin nei minimi dettagli, mentre suo marito Jacques, al contrario, fa proprio il meno possibile per vinificare Le Pin, un cru acquistato nel 1979 e diventato una stella con la sua annata 1982, quando Robert Parker gli aveva dato un punteggio di 98/100. Adesso dai suoi 2,7 ettari esce uno dei vini più apprezzati al mondo, con una media di € 1.500 a bottiglia, e fino a quasi € 7.000 per la famosa annata 1982 (valutazioni fornite da idealwine.com).
In ogni caso, com’è accaduto spesso nella storia recente di Bordeaux, anche il vino di Valandraud deve molto a Robert Parker che, accompagnato in quella prima visita a Jean-Luc Thunevin e consigliato da Alain Vauthier, proprietario del famoso Château Ausone, aveva assegnato al Valandraud 1991 (nota bene: la primissima annata) un sorprendente 83/100.
Un punteggio notevole per quell’annata, poiché era già straordinario essere anche soltanto notato dal degustatore americano quando molte proprietà non gli avevano presentato nessun vino a causa delle terribili gelate primaverili che avevano colpito Bordeaux proprio quell’anno. Prodotto praticamente proprio senza mezzi, in un garage, con rese molto basse e maggiori estrazioni, questo prototipo gli era apparso rapidamente come un prodotto di alta moda da un fazzoletto di vigna di 0,6 ettari, incollato ai piedi del villaggio di Saint-Émilion e coltivato come un giardino, lo aveva immediatamente entusiasmato.
E non solo. All’annata successiva, la seconda, quella del 1992, l’oracolo di Monkton (soprannome di Robert Parker) aveva poi assegnato un altisonante 88/100 che inseriva Jean-Luc Thunevin tra i migliori quaranta produttori di Bordeaux, addirittura davanti ai mitici Château Tertre Rotebœuf a Saint-Émilion e Château Le Pin a Pomerol. Perciò le annate successive sono andate a ruba a prezzi uguali o superiori a quelli a cui si poteva acquistare uno 1-er Grand Crus classé A di Saint-Émilion. Ed è così che è nato quel gran fenomeno dei vins de garage.
Dopo questi due vini che hanno fatto di Jean-Luc Thunevin il precursore dei vins de garage a Saint-Émilion, in alcuni anni è finito pure il tempo del pionierismo.
Il Valandraud, che era diventato nel frattempo Château Valandraud Premier Grand Cru Classé, adesso è prodotto in una cantina bioclimatica di proprietà di Murielle Andraud e Jean-Luc Thunevin che è stata progettata da un architetto di fama con un design molto raffinato ed è dotata pannelli fotovoltaici, doppi serbatoi e una sala per le degustazioni professionali, un investimento di 10 milioni di Euro. È davvero difficile immaginare che questa modernissima struttura sia la degna erede di quel piccolo appezzamento che, nei primi anni 1990, ha dato vita al cosiddetto movimento dei vins de garage.
Oggi, però, penso che nessuno possa veramente pretendere di essere definito un garagiste. È stato un movimento storico, un momento.
Château Valandraud rimane ufficialmente il primo nella storia denominato vins de garage, quindi il primo a incarnare in Francia questo fenomeno, che però con le microvinificazioni semplicemente esisteva già, perciò è rientrato nell’alveo della tradizione dove stava già, ma, come sostiene Fiona Morrison che ha più di trent’anni di esperienza nel settore dei vini pregiati e perciò non si discute nemmeno, anche se con una maggior cura dei dettagli che costituisce l’impronta lasciata nel bordolese dai vins de garage.
Francois Mitjaville di Château Tertre Rotebœuf, che è stato uno dei promotori, con Jean-Luc Thunevin, del fenomeno garagista, ha rinvigorito la critica che definiva questi vini come anti-terroir, affermando che in effetti il vin de garage non ha nessun potenziale di lungo termine e preferendogli il termine petit-cru, dato che non si basa su nessuna nozione di terroir, ma rappresenta piuttosto la personalizzazione del pensiero enologico dei suoi autori.
Ne nascono infatti ancora oggi alcuni di questi vini prodotti in pochissimi esemplari che colpiscono particolarmente la critica impennandone immediatamente le quotazioni, ma si tratta di vini non più ancorati a regole ben precise, ma che si distinguono più per uno stile personale dell’autore artigiano che non per la provenienza da un preciso vitigno con l’impronta del territorio.
Ha smesso di giocare in cortile fra i cestelli dei bottiglioni di Barbera dello zio imbottigliatore all’ingrosso per arruolarsi fra i cavalieri di re Nebbiolo e offrire i suoi servigi alle tre principesse del Monte Rosa: Croatina, Vespolina e Uva Rara. Folgorato dal principe Cabernet sulla via dei cipressi che a Bolgheri alti e stretti van da San Guido in duplice filar, ha tentato l’arrocco con re Sangiovese, ma è stato sopraffatto dalle birre Baltic Porter e si è arreso alla vodka. Perito Capotecnico Industriale in giro per il mondo, non si direbbe un “signor no”, eppure lo è stato finché non l’hanno ficcato a forza in pensione da dove però si vendica scrivendo di vino in diverse lingue per dimenticare la bicicletta da corsa, forse l’unica vera passione della sua vita, ormai appesa al chiodo.