Che cos’hanno in comune le patate, Ade e Dostoevskij? Il sottosuolo, ovviamente
- anna cali
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Che cos’hanno in comune le patate, Ade e Dostoevskij? Il sottosuolo, ovviamente
Essendo un frutto ctonio, alla sua prima apparizione in Europa e soprattutto in Italia, intorno al diciassettesimo secolo, incontrò diverse perplessità dovute alla paura del popolo verso l’ignoto.
Paure reali e paure immaginarie.
Di quest’ultime, la più ostica da superare fu che crescesse sottoterra; tale qualità creava pregiudizi e superstizioso terrore: è forse figlia della divinità ctonia per eccellenza, Ade, signore degli inferi? – Non credo sia un caso che oggi lo spauracchio più grande per gli italiani abbia quelle tre lettere come acronimo, ma forse non è il caso di parlarne qui.
Le paure reali erano, invece, legate alla vera e propria sussistenza.
I fittavoli temevano che i proprietari gli imponessero le patate per l’autoconsumo al posto dei più familiari grano, mais o castagne, per destinare questi ultimi solo alla vendita esterna.
Non un attaccamento alle tradizioni, ma un sensato dubbio da parte dei contadini che la propria alimentazione potesse impoverirsi. All’epoca, le varietà disponibili erano poche e di cattiva qualità e in più all’inizio molti mangiavano frutti e foglie anziché i tuberi, con conseguenze sulla salute immaginabili, e si pensava pure che il tubero non potesse essere utilizzato per la panificazione.
Cosa che, come sappiamo, non è vera.
Ma nessuno nasce con le verità in tasca e la sperimentazione sul campo è l’unica via per la conoscenza fisica della materia.
A parte cruda, che in effetti non è molto appetibile, la patata è buona in tutte le preparazioni: lessa, con un filo d’olio extra vergine di oliva di quelli buoni, aglio tritato, prezzemolo e sale, non fa rimpiangere vivande e preparazioni più pregiate.
Però che sia un alimento povero, ancorché robusto, non c’è dubbio: Van Gogh deve anche ai mangiatori di patate un’eternità indiscussa.
Il suo omonimo quadro tratteggia del popolo contadino la semplicità quotidiana e la sua certezza nell’inalterabilità del proprio destino.