Finanziera e storie di paese: la trattoria che resiste
C’è un posto, a Rivalba, in provincia di Torino, che non ha bisogno di insegne luminose o recensioni stellate per farsi riconoscere.
La trattoria della Società Operaia di Mutuo Soccorso (aperta dal 1868) è l’unico bar/ristorante del paese, un presidio di cultura piemontese che resiste al tempo come il campanile della chiesa e le colline che abbracciano questo angolo di mondo.
Qui i clienti si dividono in due gruppi: i soci e i non soci.
Rivalba conta circa 1000 abitanti; qui il concetto di “forestiero” è ancora ben definito: ogni nuovo volto che varca la soglia della trattoria viene accolto da uno sguardo attento, a metà tra la curiosità e la valutazione.
Non è diffidenza, è un rituale.
Tiziana, che gestisce ‘la Soce’, è cresciuta qui; prima di lei la gestivano i suoi genitori, Lucia e Dino.
Conosce tutti, ha visto il paese cambiare, ma ha mantenuto saldo lo spirito della trattoria: un luogo dove il cibo è pretesto per stare insieme, per discutere, per ricordare.
Le pareti parlano: vecchie foto, cimeli, tracce di una Rivalba che non esiste più, ma che qui dentro continua a vivere.
Qui non si entra solo per mangiare, ma anche per un caffè, per fare due chiacchiere, spezzare la monotonia del pensionamento o avere informazioni sulle beghe di paese.
Le informazioni vanno incrociate con quelle ottenute nella seconda roccaforte della realtà rivalbese: il negozio di alimentari e affini di Teresa (dove si trovano salami pregiati, la salsiccia all’aglio, le acciughe al verde, i tomini di Chivasso, il giornale e i beni di ‘prima necessità’).
La connessione tra i due luoghi è chiara: come una cordata senza montagne, i 300mt in linea d’aria che separano le due realtà sono la misura delle delizie accessibili e delle eventuali novità.
Per me, questa trattoria è molto più di un semplice ristorante.
Si trova a dieci metri dalla casa dei miei nonni, dove ho trascorso l’infanzia.
Quando attraverso il portone di ferro, non sono Valeria WildKitchen, non sono una professionista della gastronomia: sono Valeria, la figlia di Giuseppe (quella un po’ scampanata che non si capisce bene cosa fa nella vita). Il tempo si accorcia, i ruoli si sciolgono e rimane solo l’appartenenza.
Ricordo ancora quando da bambina andavo a comprare il gelato. Il padre di Tiziana, Dino, si incazzava come una biscia ogni volta che doveva lasciare il frigo aperto mentre io cercavo di decidere quale gusto scegliere dall’offerta luculliana del tabellone Algida.
Qui poi c’è il cibo, quello vero, quello che racconta il territorio meglio di qualsiasi guida.
Tra i piatti che qui resistono al tempo, ce n’è uno che incarna l’essenza più autentica della cucina piemontese: la finanziera.
Un piatto antico, nato dall’ingegno e dalla necessità di non sprecare nulla, oggi sempre più raro da trovare sulle tavole.
La storia della finanziera
La finanziera affonda le sue radici nel Piemonte contadino e nelle cucine dei macellai.
Nato come piatto povero, veniva preparato con le parti meno nobili (e più sconosciute) del pollo e del vitello; le altre parti, visto che il reddito si basava principalmente sull’attività agricola, venivano vendute e consumate solo nelle festività (Pasqua e Natale, gli unici due giorni dell’anno in cui il vero agricoltore rivalbese non lavorava).
Il nome, si dice, derivi dagli abiti dei finanzieri torinesi dell’Ottocento, presenti nei mercati di bovini e pollame e addetti ai controlli.
Oggi, la finanziera è un simbolo della tradizione gastronomica piemontese, un piatto di carattere, saporito e deciso, che racconta una storia di ingegno e sapienza culinaria.
Secondo Tiziana, che ha ereditato la ricetta da sua mamma, il vero segreto risiede nella scelta della materia prima, nella minuziosa pulizia e nella cottura separata di tutti gli ingredienti prima della fase finale.
Non sono comuni ‘frattaglie’, ma parti scelte.
Per questo da una preparazione ‘povera’ si ottiene un piatto pregiato.
Quali sono?
Del pollo solo le creste e i duroni (cioè il ventriglio); del vitello le granelle (anche detti testicoli), il lacét (animelle o ghiandola del timo), il filone (midollo) e una parte di coscia (usata per il brodo).
Le verdure (carota, cipolla peperone e sedano) si sbollentano in acqua e aceto.
Se è stagione si aggiungono i funghi.
Poi si unisce la carne a dadini, le verdure, un po’ di concentrato di pomodoro, il brodo e si lascia stufare finché i sapori non sono perfettamente amalgamati.
La trattoria della Società Operaia di Mutuo Soccorso non è solo una trattoria.
È una memoria collettiva con il profumo del bollito, della faraona e della bagna caöda, una casa senza chiavi, un luogo che racconta la campagna piemontese meglio di qualsiasi libro di storia.
Autore
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Valeria Castelli WildKitchen Mi sono persa nel labirinto gastronomico circa vent’anni fa. Mi chiamo WildKitchen perché un giorno sono scappata. Ho cucinato per miliardari e per emarginati (credo in egual misura). Esploro la cucina olistica e la sostenibilità, cercando di far incontrare gli attori delle catene alimentari prima che diventino fantasmi. Scrivo di cibo perché cucinarlo e mangiarlo non mi basta. linkedin https://www.linkedin.com/in/valeria-wildkitchen
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