L’ospitalità ai tempi del covid. Parte 1
- Stefano Gallerani
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L’OSPITALITÀ AI TEMPI DEL COVID
ospitalità s. f. [dal lat. hospitalĭtas –atis]. – 1. Qualità di chi è ospitale; cordiale generosità nell’accogliere e trattare gli ospiti: è noto per la sua o.; la tradizionale o. di quelle popolazioni. 2. Il fatto stesso di accogliere, di dare alloggio nella propria casa, o anche di trattenervi temporaneamente un ospite: dare o. a un pellegrino; offrire o.; accettare, rifiutare l’o.; chiedere o. a qualcuno; ringraziare per l’o. ricevuta; troverete sempre o. in casa mia; i doveri dell’o., con riferimento sia a chi ospita sia a chi è ospitato; quindi, tradire l’o., venir meno a tali doveri. Per estens., con riferimento a esuli, fuoriusciti e sim., trovare o. in un paese, esservi accolti. In senso fig., dare o. in un giornale a un articolo, a uno scritto e sim., accoglierli e pubblicarli.
Mentre, dal catalogo delle farse italiane e con discutibile scelta di tempi, è da poco andato in scena un classico del repertorio politico – ovvero, la crisi di Governo: un’altra, l’ennesima – e mentre le regioni italiane, in ginocchio da mesi, aspettano settimana dopo settimana di vedere che colore scatterà sul loro semaforo al prossimo DPCM – un altro, l’ennesimo – alcune considerazioni sul settore dell’ospitalità che conosco meglio: quello dei cocktail bar.
Per me, infatti, il bancone è sempre stato quello che si accende di sera e illumina la notte. Un faro e un ricovero, come i falò ancestrali dei nostri antenati. Un luogo ideale, prima ancora che il proscenio di un locale, davanti al quale le persone si ritrovano non per dovere ma per piacere, non per apprendere ma per conoscere, non per eseguire ma per agire. Da principio, sono stati soprattutto i ripiani di mogano levigato dei pub o quelli di marmo lucido degli american bar dei grandi alberghi. Poi, tra le vie del centro di Roma (da vicolo Cellini, per l’esattezza) è sorto un movimento dapprima quasi clandestino quindi sempre più vasto che, da un capo all’altro della penisola, ha rinverdito una grande tradizione riportandola a livelli di eccellenza che nulla hanno da invidiare alle più blasonate genealogie europee. Sono ormai storia recente i premi internazionali piovuti sui cocktail bar di tutt’Italia: 50Best, Tales of the Cocktail e chi più ne ha più ne metta. Tanti che non è questa la sede per ricordarli se non come ennesimo vanto – questo sì – di un paese che, come per le bellezze che attirano milioni di visitatori da tutto il mondo, ha fatto della capacità e della grazia nell’accogliere un’arte.
Pure, come per molti altri settori della cultura (musei, cinema e teatri), la gestione della crisi di questi ultimi mesi ha presentato a questo mondo un conto decisamente salato. Un conto che, mentre ci si accapiglia sull’aprire o meno le piste da sci, non ha saputo fare quelle distinzioni che forse sarebbero state opportune. Un conto, insomma, che ha colpito alcuni più di altri e non ha tutelato quello che, né più né meno, è un patrimonio di tutti.
Non voglio entrare nel merito delle misure con cui si è fronteggiata la pandemia da Covid-19. E neppure voglio difendere una categoria piuttosto che un’altra. Anche se non tutti la riconoscono come tale, quella dei professionisti dell’ospitalità si difende egregiamente da sola. Ma ora è esasperata. Prima di lasciare la parola a chi troppo poco è stato ascoltato in questi mesi, però, una cosa la voglio dire: l’indistinzione non è democratica ma demagogica. L’indistinzione non è egualitaria ma discriminatoria: demonizzare – o semplicemente penalizzare – un settore facendo di tutt’erba un fascio non aiuta a correggere eventuali storture ma rischia di danneggiare anche tutto il buono che c’è.
Da cliente, ho visto di persona l’attenzione e la serietà che in molti hanno messo per salvare i propri locali rendendoli, allo stesso tempo, sicuri e rispettosi delle nuove regole. Pure, pare che tutto questo non sia bastato. “La situazione è grave ma non seria”, scriveva Ennio Flaiano. E, puntualmente, il racconto del terrore collettivo si è trasformato in una carnevalata: “dagli addosso alla movida”, si è gridato sventolando slogan come cappe rosse davanti a un toro. Ma la “movida”, ammesso che significhi qualcosa, non ha niente a che vedere con la posta in gioco. Nella cecità istituzionale, un assembramento vale l’altro, ma alcuni assembramenti sono stati “raccontati” come peggiori delle code interminabili ai supermercati, dei sovraffollamenti sui mezzi di trasporto pubblico o degli assedi ai centri commerciali. Invece di intervenire là dove era doveroso – e assumendosi, lo Stato, le proprie responsabilità – si è deciso di colpire non le parti difettose di un settore ma il tutto. Un criterio discutibile che non è stato applicato in altri ambiti, perché, forse, ritenuti più importanti, più necessari.
E però, quante cose sono più necessarie della cultura? Perché di questo si tratta. Cultura che nasce che nasce dalle pozioni magiche che riempiono i bicchieri con cui brindiamo e che sono fatte di prodotti che provengono da tutto il mondo; prodotti che parlano di storia, di territori e di identità. Difficilmente saprei trovare una sintesi più semplice e efficace per descrivere quel multiculturalismo in cui il generale si arricchisce del particolare. Ma anche, e soprattutto, cultura che nasce dal vivere insieme agli altri: dall’incontro e dal confronto, dalle chiacchiere e dalle discussioni, dai silenzi e dalle risate con cui ci prepariamo a affrontare con animo migliore il giorno che segue.
È solo per gusto della citazione che ricordiamo gli intellettuali che, da Baudelaire e Apollinaire fino a Elsa Morante e Alberto Moravia, animavano l’Antico Caffè Greco di Roma? Non credo. Gli scrittori che di sera si davano appuntamento alle Giubbe Rosse in Piazza della Repubblica, a Firenze, ancora ci parlano. Era lì che Dino Campana cercava di vendere le prime copie dei suoi “Canti Orfici”. Ed era sempre tra quei tavolini che prendevano vita le pagine della rivista “Solaria”, sulla quale cominciavano a apparire al pubblico italiano i nomi di James Joyce, Franz Kafka e Virginia Woolf. Uno straordinario cantiere di arte e pensiero cui contribuirono, tra gli altri, nomi del calibro di Ardengo Soffici, Carlo Emilio Gadda, Eugenio Montale, Tommaso Landolfi e Umberto Saba. Mi sembra di vederli, tutti insieme, mentre scrivono, si accalorano, ordinano da bere e sognano quel futuro che è oggi il nostro presente.
E, allora, perché non proteggere chi nell’ospitalità – ovvero, ancora, nella cultura – ha investito passione, professionalità, tempo e denaro? Sì, anche denaro. Denaro vero, non speculativo. Denaro sotto forma di stipendi e posti di lavoro. Chiusure forzate, aperture a singhiozzo, orari mortificanti sono stati imposti ai bar italiani come una panacea. Ma le panacee, si sa, fanno bene a tutto e a niente. E a nulla servono concessioni che non affrontino il problema ma sono solo tali, ovvero ipocrite forme di paternalismo: un settore evoluto come quello dell’ospitalità (uno dei capisaldi di quella locomotiva economica che in Italia è il turismo) non ha bisogno di padri. È adulto da un pezzo. Ha bisogno di interlocutori seri, competenti. Interlocutori che sappiano di cosa parlano. Se occorre, si fissino delle regole, va bene, e si punisca chi non le osserva. Va benissimo. Ma si premi chi le segue. Questo andrebbe ancora meglio. Si chieda ai gestori di operare in sicurezza, certo. A patto di aiutarli dove non arrivano da soli. Si coinvolgano nelle scelte che li riguardano. Si ascoltino le loro soluzioni. Si guardi alle decine di iniziative cui per sopravvivere hanno dato vita e che, sebbene non possano risolversi in un’alternativa stabile, per il prossimo futuro rappresentano un prezioso serbatoio di possibilità.
E, ugualmente, si chieda ai clienti non solo senso di responsabilità ma partecipazione. Perché, questo ci tengo a dirlo, se il mondo dell’ospitalità tenta di far sentire la propria voce e mostrare di esistere e di esserci, poche parole sono arrivate dai clienti, ai quali chiedo di ricordare che non si è consumatori solo quando si tratta far valere i propri diritti, ma anche – e in special modo in questo periodo – quando si devono tutelare i diritti di quelle persone che offrono i servizi e i prodotti che tanto volentieri consumiamo.
Insomma, non teniamo chiusi i bar. Non tradiamo l’ospitalità. Non veniamo meno ai nostri doveri. Non diamo le spalle alla cultura. Facciamo uno sforzo. Sarà più difficile che tirare giù le saracinesche. Ma i primi a godere dei frutti di questo sforzo saremo noi. Tutti noi.
Ndr: la settimana prossima ci saranno i primi interventi dei professionisti del mondo dei cocktail-bar che ospiteremo periodicamente per raccontarci il loro presente e le loro prospettive per il futuro.
Stefano Gallerani è nato il 4 ottobre del 1975 a Roma, dove vive lavorando in televisione. Suoi articoli e saggi sono apparsi su «Alias», supplemento letterario de «il manifesto», “l’Unità”, “Il Mattino” e “Playboy”. Collabora con le riviste «Il Caffé Illustrato» e «L’Illuminista». Altri contributi sono apparsi su “Nuovi Argomenti”, «Alfabeta2», «Il Giannone», «Allegoria» e «Reportage». Nel 2014 ha pubblicato “Albacete” (Lavieri). Il suo ultimo libro. “A Buenos Aires con Borges” è uscito nel giugno scorso per i tipi di Giulio Perrone Editore.