Ecco il primo rosato imbottigliato in Italia: il Five Roses
- Mario Crosta
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Rosati, qualcuno li definisce vini né carne né pesce.
Io ricordo soltanto che alcuni decenni fa, in una delle più belle gite enogastronomiche che sono riuscito a fare nel Salento, alla ricerca dei grandi vini rossi di cui quella terra è particolarmente dotata, fra i Sava ed i Manduria che segnano ancora la memoria, avevo trovato un Salice Salentino riserva numerata della casa vinicola Leone de Castris 1966 che mi aveva entusiasmato notevolmente.
Su nel Nord allora riusciva a trovarlo soltanto mia zia Anna, i tempi non erano come quelli odierni e solo grazie a lei ero riuscito a gustarne ancora altre bottiglie, convincendomi ancora di più che quella cantina era veramente capace di fare dei vini rossi da primato.
Così quando era comparso sulla rivista Civiltà del bere un articolo molto esteso su quelle tenute con tre secoli di storia e tre milioni di bottiglie prodotte ogni anno me lo sono letto dapprima tutto d’un fiato e poi l’ho riletto anche altre volte, ma più lentamente, cercando di capire bene ogni parola.
Il discendente del Duca in quell’intervista raccontava un episodio capitato durante l’ultima guerra mondiale, quando alcuni alti ufficiali americani si erano acquartierati proprio nella sua tenuta e una sera, commentando un suo vino rosato appena nato nel 1943 e più volte degustato con particolare piacere, lo avevano chiamato ”Five Roses”, che nella loro lingua significa ”cinque rose”, per magnificarlo alla loro maniera, assegnandogli un fiore in più del ”Four Roses” (soltanto ”quattro rose”…), uno dei loro migliori Bourbon di quell’epoca.
Come sempre c’è un confine sottile tra storia e leggenda, specialmente quando si deve parlare dell’origine di un vino, ma resta il fatto che sul finire dell’ultima guerra il generale Charles Poletti, commissario per gli approvvigionamenti delle forze alleate, aveva chiesto una grossa fornitura di vino rosato, pretendendo che avesse però un nome americano.
Ufficialmente è nato così il ”Five Roses”, che pur avendo un nome ”americano” lo aveva preso però da una contrada nel feudo di Salice Salentino che è sempre stata chiamata ”cinque rose”, se non dalla storia di quella nobile casata di vitivinicoltori fin dal 1665 in cui per molte generazioni ogni Leone de Castris ha avuto cinque figli (che a Napoli sono ”piezz’ e core” e in Salento sono rose).
Dal 1978 ne ho bevute diverse annate, hanno cambiato più etichette, ma la qualità è rimasta sempre indiscussa.
Non riuscivo a capire come mai dei grandi produttori di rossi davvero eccellenti si fossero dedicati con tanta passione a un rosato.
Allora le enoteche non erano diffuse come adesso e spesso non in tutte si trovava il meglio di tutto, perciò ho dovuto girarne molte per riuscire a portare a casa cotanto vino e, da amante del rosso ben strutturato e invecchiato, potete immaginare con quale curiosità ho atteso l’attimo giusto per poterlo bere.
L’occasione è arrivata con la visita di alcuni colleghi di lavoro, all’improvviso, come capita quando non si vuole rendere solenne un’occasione, con tanto d’invito, di fiori, di nuovi vestiti e di corsa dalla parrucchiera per le donne, ma si preferisce far prevalere lo spirito alla buona che è più spontaneo e senza dubbio più allegro.
Due di loro erano sardi, una terra che di rosati se ne intende da qualche secolo e non da pochi decenni, insomma dei giudici ideali per quel vino.
Gianni, bevendolo, quasi piangeva, ”di rosati così se ne fanno pochissimi, ma dove sei riuscito a trovarlo?”, perché pensava che fosse un rosato sardo, di quelli che solo nelle occasioni eccezionali le nonne barbaricine permettono di offrire a degli ospiti altrettanto eccezionali. Maurizio, invece, aveva già visto l’etichetta e sorrideva come sanno sorridere i campidanesi, cioè a lungo, però senza parole perché non si aspettava di commuoversi per un vino rosato che non fosse della propria terra.
Abbiamo passato così un’oretta in allegria, quindi è arrivata la volta di gustare il pecorino, poi quella di gustare la Malvasia di Bosa, ci siamo raccontati le barzellette, abbiamo cantato in limba, la lingua della Barbagie e infine ci siamo scolati la Vernaccia e si è fatta notte fonda. Sono attimi molto belli che si ricordano per tutta la vita, come quel rosato.
In Sardegna ne ho trovati effettivamente tanti e buoni, molto diversi però fra loro perché questi sono vini che risentono intensamente del territorio e in quell’isola ci sono tanti di quegli ambienti e microclimi che la si paragona in piccolo all’intera penisola, cioè ci sono tutti gli ambienti dell’Italia intera e basta visitarla a fondo per rendersene conto. Chi ha avuto la pazienza di contarli ne ha individuati più di 90!
Ma quarant’anni fa non erano in molti laggiù a fare dei buoni rosati. Ricordo un rosé di Alghero del 1973, Sella & Mosca vecchia gestione, tenore alcolico del 13,5%, completamente diverso dai primi Maristella rosati della cantina Sociale di Santa Maria La Palma, molto beverini perché ricordavano più l’acqua di rose che un vino.
Fra i rosati mi piacevano molto quelli dell’Alto Adige, dove dominano uve di grande stoffa come lagrein e schiava, ma altrove c’era di tutto, persino un rosé di Bolgheri, tentato dal marchese Ludovico Antinori, fratello di Piero ma che non mi piaceva granché.
Ne arrivavano per giunta anche dalla Francia, ma si sentiva che questi ultimi erano delle miscele malfatte di vini bianchi e rossi, tanto per commerciare qualcosa che di rosato aveva solo il nome perché anche il colore era bastardo come il contenuto delle bottiglie. I cugini d’oltralpe sono serissimi soltanto quando vogliono e se fidarsi è bene, non fidarsi è meglio, visto che rinforza(va)no molti dei loro deboli vini con quelli fatti arrivare in cisterna dal nostro Meridione.
Dei veri e propri rosati da favola si fanno invece nel Palatinato, nella Valle del Reno in Germania, con l’uva portuguiser pigiata soffice e filtrata subito per mantenere quel bouquet floreale di grande freschezza ne fa dei veri gioielli, bevendoli si sente la primavera con i suoi fiori e nel sapore si avverte quella nota di confetto che fa andare in visibilio tutti gli estimatori del vino.
I rosati sono vini prodotti per avere il massimo della fragranza, del fruttato e della morbidezza, con macerazione breve o brevissima e pressatura soffice orizzontale, in questo sono migliorati molto negli ultimi decenni per una più adeguata tecnologia del freddo a disposizione. Ne beviamo più volentieri durante le vacanze, per quel brio particolare che ne fa un piacevole testimone del territorio e di tante grigliate all’aperto, ma stanno diventando veri e propri vini di pregio.
Si avverte finalmente la tendenza alla ricerca di armonia ed equilibrio e questo non potrà che migliorare ancora questi vini che si differenziano fra loro, oltre che per i vitigni impiegati e per il microclima, anche per due scuole di pensiero dei vinificatori.
Una tende a produrre vini leggeri, dagli intensi profumi floreali e dai sapori delicati, adatti alle ricette tipiche della gastronomia continentale e l’altra tende a produrre vini più ricchi di corpo e di carattere, adatti alle saporite pietanze della dieta mediterranea.
C’è da dire, però, che le due scuole di vinificazione sono indipendenti dalla posizione geografica delle cantine.
Capita infatti di trovare in Sardegna e in Sicilia dei rosati modernamente più leggeri rispetto a quelli tradizionali che ricordano nonni e bisnonni, così come capita di trovare in Toscana e in Abruzzo dei rosati ricchi, potenti e di gran corpo accanto a rosati più freschi e vivaci.
Il mondo dei rosati non è più riducibile come in passato a vini dalla personalità evanescente, ma è uno tra i più variegati campi di applicazione dell’ingegno del cantiniere che sa estrarre dall’uva tutto il potenziale della freschezza per fornire vini di tutte le sfumature del corallo, dai profumi intensi di fiori recisi e dal gusto persistente di fiori e frutti della primavera.
Per apprezzarli in pieno è meglio berli freddi, da 8 a 10°C i meno alcoolici e da 10 a 12°C i più sostenuti, anche se in inverno possono tollerare un paio di gradi in più.
Ma veniamo al nostro protagonista di oggi. Il primo rosato imbottigliato in Italia, il Five Roses che si è fregiato subito della DOC Salice Salentino, è ottenuto oggi da uve negroamaro con un po’ malvasia nera provenienti da vigneti già rinnovati di circa 35 anni allevati ad alberello pugliese con una densità di 7.000 piante per ettaro e con rese per ettaro di 75 quintali.
La vinificazione di questo vino viene eseguita con il metodo tradizionale per alzata di cappello, cioè dopo un contatto pellicolare delle bucce di 10/12 ore a 10°C con l’uva pigiata viene estratto solo il “fiore” del mosto che rappresenta al massimo il 35% del prodotto, per poi fermentare alla temperatura controllata di 18/20 °C in acciaio inox e maturare in circa un mese per poi affinarsi in vetro per almeno un altro mese.
Quello dl 2020 ha un tenore alcoolico del 12,5% ma in qualche annata precedente ha raggiunto mezzo grado, anche un grado in più.
Di colore vermiglio chiaro trasparente, attacca con un profumo netto, gradevole e fine, ricorda i fiori di ciliegio e i lamponi. Sapore dal gusto fruttato in cui emergono anche e fragoline di bosco, pieno, vellutato, armonico, persistente nelle note finali. Particolarmente indicato sui piatti di mezzo, minestre, pasta asciutta, bolliti in genere e verdure grigliate e gratinate. Si consiglia di servirlo in bicchieri a gambo lungo tipo tulipano.
Dalla vendemmia 1993, che ho avuto modo di gustare con grande piacere prima di emigrare in Polonia, in occasione del 50° anno dalla nascita del Five Roses, ne è stata proposta anche una versione particolare ”Anniversario”, da vigneti di 50 anni con una resa inferiore, circa 65 quintali d’uva per ettaro.
Quello del 2020 ha svolto una macerazione un po’ più fredda (7/10 °C) per alcune ore, ha un tenore alcolico leggermente inferiore, sul 12% e un’indubbia capacità di ulteriore maturazione nel tempo, un colore che tende al rosa antico e un aroma persistente. Vale la pena di degustarlo come vino d’entrata e con piatti di carni bianche, agnello, capretto e zuppe di pesce.
L’esperienza della casa vinicola Leone de Castris con il Five Roses e il Five Roses Anniversario (di cui produce anche le versioni Metodo Classico DOC Salice Salentino Brut Rosé Negroamaro e Anniversario Metodo Classico DOC Salice Salentino Brut Rosé Negroamaro) e atri rosati continua però a rinnovarsi per incontrare i gusti delle nuove generazioni.
Da uve negroamaro per la DOC Salice Salentino si vinificano anche il Maiana Rosé, più disinvolto e beverino, dal colore rosa corallo e dal sapore di frutta rosa e rossa, ma pure il Rena Rosato, mentre per l’IGT Salento si fa il Medaglione Rosato IGT Salento, più vinoso, dal colore rosa tenue, oltre a uno spumante metodo Charmat Donna Lisetta brut rosé, tutti da bere giovani e freddi intorno agli 8/10 °C per gustarli meglio.
Da sole uve primitivo si vinifica invece il Villa Santera Rosato IGT Salento. Ce n’è per tutti i gusti e, vista l’esperienza, provare per credere!
Di formazione tecnica industriale è stato professionalmente impegnato fin dal 1980 nell’assicurazione della Qualità in diverse aziende del settore gomma-plastica in Italia e in alcuni cantieri di costruzione d’impianti nel settore energetico in Polonia, dove ha promosso la cultura del vino attraverso alcune riviste specialistiche polacche come Rynki Alkoholowe e alcuni portali specializzati come collegiumvini.pl, vinisfera.pl, winnica.golesz.pl, podkarpackiewinnice.pl e altri. Ha collaborato ad alcune riviste web enogastronomiche come enotime.it, winereport.com, acquabuona.it e oggi scrive per lavinium.it, nonché per alcuni blog. Un fico d’India dal caratteraccio spinoso e dal cuore dolce, ma enostrippato come pochi.