Carne equina e storia dell’Ippofagia in Puglia

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Il cavallo da lavoro da sempre ha costituito il punto di forza di un nucleo familiare ben organizzato; se da un lato rappresentava la capacità dell’uomo di provvedere ai bisogni della famiglia, tramite il lavoro prodotto dal suo “attrezzo” animato, dall’altro costituiva una referenza come valido esecutore di lavori pesanti.
Il cavallo configurava, allo stesso tempo, la bellezza e la forza lavoro.
Si tratta di un animale splendidamente dotato che, a differenza del bovino e del suino, beneficia di un perfetto equilibrio delle forme e di una mirabile armonia delle proporzioni in ragione dell’esercizio ri- chiesto: tiro veloce, tiro pesante, soma, carico sono discipline che riconoscono ognuna una differente razza con diverso sviluppo delle relative impalcature muscolo-scheletriche. Un animale dedito dunque al lavoro e abituato alla fatica, con conseguente riforma, oggi si direbbe “rottamazione”, quando reso inabile da acciacchi e da troppi anni di servizio. Restava un ultimo tributo da chiedere al proprio quadrupede per rendersi utile sino all’estremo: che si trasformasse in cibo.

È questo, in buona sostanza, il percorso secolare che ha condotto molte popolazioni ad accettare di buon grado l’ippofagia come pratica alimentare.
Certamente non è stata una scelta ma una necessità (le carni equine erano di gran lunga meno costose di quelle bovine e dunque più fruibili dai ceti meno abbienti); l’inferiore qualità sia merceologica sia sanitaria induce il legislatore a escludere le carni equine dalla vendita congiunta alle altre, e questo per un valido motivo: gli equini destina- ti alla macellazione erano sicuramente animali riformati dal lavoro, inutili per una attività che richiedesse una perfetta, sana e robusta costituzione: nascono così le macellerie equine.
Si pensi, per esempio, alle polmoniti e all’enfisema polmonare dei cavalli e dei muli dediti al trasporto di legna sulle mulattiere di montagna in condizioni estreme di gelo; alle fratture degli arti che costringevano il proprietario a esercitare il pietoso gesto dell’uccisione del- l’animale al fine di evitargli più angoscianti e lunghe sofferenze e, non ultimo, al ricambio degli equini dell’esercito che erano sostituiti da nuovi e più giovani soldati a quattro zampe.
Si capisce dunque che il valore delle carni ottenute da animali ridotti in tali condizioni non potesse essere paragonabile a quello dei bovini, dei suini, dei volatili da cortile e dei ruminanti minori, sia per ragioni di tipo organolettico sia, soprattutto, per motivi sanitari, tanto da do- verne escludere, in alcuni casi, la vendita in macelleria.
Spesso la commercializzazione di tali carni avveniva in aree di proprietà comunale, destinate alla vendita della bassa macelleria, sulle quali troneggiava la scritta “da non consumarsi se non cotte”, segno evidente di una residua capacità offensiva del nostro mitico lavoratore.
Il macellatore che acquisiva tale bestia, era costretto a venderne le parti al di fuori del proprio esercizio, nei soli locali che l’amministrazione comunale metteva a disposizione;
gli animali venivano macellati nei pubblici mattatoi ma il destino era segnato dalla successiva fase ispettiva. Il veterinario disponeva, nei casi previsti, l’assegnazione di “bassa”, marchiando le mezzane con timbro di visita sanitaria di forma diversa dall’usuale e con inchiostro nero (il rosso si riservava alle sole carni “buone”). Nasce così la distinzione, ancora mantenuta nell’immaginario collettivo e di molti macellai meridionali, tra le macellerie di carne equina e quelle di carne buona.
Il miglioramento delle condizioni economiche ha fatto sì che il consumo di carne bovina si sia esteso a tutte le categorie sociali, ma molte popolazioni mantengono la stessa diffidenza, segno di antiche vestigia, nei confronti del consumo di carne equina che nel frattempo, però, è migliorata moltissimo quanto a qualità organolettica e, soprattutto, ido- neità sanitaria, dal momento che non esiste più alcuna distinzione tra le carni bovine, equine, suine, ovicaprine, bufaline, che mantengono una differenziazione sanitaria soltanto da quelle bianche, le avicunicole.

Tutti gli equini oggi avviati alla macellazione provengono esclusivamente da allevamenti per la produzione di animali da macello, a differenza di quanto succedeva in passato, quando si assisteva, addirittura, alla macellazione di animali febbricitanti o agonizzanti perché fe- riti durante il lavoro (macellazione d’emergenza oggi MSU, macellazione speciale d’urgenza).
La qualità sanitaria può definirsi oggi così ineccepibile da imporre una revisione del regolamento della Vigilanza Sanitaria sulle carni, che ha governato questo argomento dal 1928 sino al 2000 (quando cioè la Comunità economica europea ha riconosciuto necessaria una modifica delle leggi in materia).
La normativa vigente consente, infatti, la produzione, commercializzazione e trasformazione negli stessi impianti tanto delle carni bovine quanto di quelle equine;
persiste, invece, come già detto, l’obbligo di separazione delle carni avicunicole che mantengono ancora un trattamento differenziato di filiera (macellazione, lavorazione, trasporto, commercializzazione); ciò è dovuto alle possibili contaminazioni crociate tra le due tipologie di carni, giacché le carcasse dei piccoli animali rischiano più facilmente di contaminarsi durante la fase di macellazione che non gli equini, i bovini e i suini.
La composizione chimica della carne equina è pressoché identica a quella del bovino così come il valore nutritivo, il va- lore biologico delle proteine e il contenuto in aminoacidi essenziali; l’uni- ca differenza, ininfluente dal punto di vista delle caratteristiche organolettiche, è rappresentata dalla più importante presenza di mioglobina, pigmento legato al Fe++, necessario a catturare l’ossigeno a livello muscolare (responsabile del precoce imbrunimento del muscolo esposto al- l’aria), e la diversa composizione del grasso: quello equino è più ricco di acidi grassi a catena lunga, acido oleico e palmitico in particolare, responsabili della maggiore untuosità dello stesso (acidi grassi con un punto di fusione più basso contro il bitirrico e stearico della componente grassa della carne bovina e suina) e di una ridotta stabilità a temperatura ambiente e di refrigerazione, che ne riducono la conservabilità.
La carne equina, infatti, mal si presta alla congelazione domestica; è ottima, invece, per il salumificio: dà vita a eccellenti salumi, dove la componente grassa è necessariamente sostituita con quella del suino.

Quattro tipologie di carne:
lattone da sei mesi a un anno
puledro da un anno a due anni
sopranno da due anni a tre anni
cavallo oltre i tre anni

Asino, mulo, bardotto riconoscono la stessa classificazione anche se ormai sono introvabili in quanto è superato l’utilizzo di tali animali per il lavoro.
Una riscoperta del tutto recente è invece l’allevamento delle asine per la produzione di latte, vera perla di vitalità, destinato all’imbottigliamento dopo pastorizzazione a bassa temperature, per l’allattamento di quei bambini, le cui madri non beneficiano del privilegio di allattarli al seno.
Utilissime come pascolatici, rappresentano un vero baluardo naturale contro i fenomeni di autocombustione durante i caldi mesi estivi (è accertata, a tal fine, una buona simbiosi con il daino, analogo pulitore di sottobosco), per la migliore tenuta del cotico erboso.
Il valore commerciale più elevato è riservato, come in tutte le specie zootecniche, agli animali giovani.

Riesce sicuramente difficile superare tutte le remore connesse a que- sto tipo di consumo ma si è visto, forse anche alla luce delle note vicende connesse agli episodi di BSE nel Sud Italia, che la carne di equino si è imposta quale legittima alternativa alla carne bovina: sono note le preparazioni di stracotto equino (ragù), allestite con fettine avvolte in guisa di involtini con peperoncino, pecorino,pepe macinato aglio e prezzemolo (brasciole non braciole!!!), e legate da filo o fermate con stecchini di legno, ottenute da diaframma e fianchetto (tagli più indicati), noce, fesa e sottofesa con l’aggiunta di tranci di coste e nervetti (tendini dei muscoli flessori delle falangi), oppure le grigliate classiche da costate e bistecche ricavate, analogamente alle fiorentine di bovino, dai tagli più pregiati che non vanno assolutamente sottoposti a cottura prolungata. Infatti una delle prerogative della carne equina è data dall’indurimento conseguente alla denaturazione delle proteine indotta dal calore. Più cuoce, più la carne diventa dura, a meno che non si abbia voglia di orientarne la cottura, come già detto, eseguendo ricette di stracotto al vino (brasato) o al pomodoro (ragù), per cui una cottura prolungata sicuramente ha la meglio sulla durezza dei tagli meno pregiati.
Meno utilizzati, anche se gradevoli, sono il brodo allestito con i tagli meno pregiati e l’ossobuco.

Ad Andria, in provincia di Bari, è famosa la preparazione di carne equina speziata, salata e affumicata (detta u’ m’ scisc’, carne secca), secondo una vera e propria tecnica conserviera ancestrale che consentiva, in mancanza di frigoriferi, un allungamento dei tempi di consumo. Vissuta in passato come vera e propria scorta alimentare, è divenuta oggi una tra le migliori prelibatezze gastronomiche allestite con carne equina, guanciale soprattutto, purtroppo destinata a sparire poiché non esiste ancora, allo stato attuale, la possibilità di inquadrare tale preparazione tra quelle autorizzabili alla cottura in macelleria (per la difficoltà tecnica di realizzare l’affumicamento).
Ciononostante e sfidando la sorte, (sarebbe un perfetto Presidio S.F. o PAT) moltissime delle 250 macellerie equine continuano a effettuarne la preparazione casalinga e a proporne la vendita solo su prenotazione (si ricordi che la legge 283/62 e il DPR 327/80 escludono la possibilità di cuocere gli alimenti al di fuori del perimetro di competenza della macelleria stessa, e da li tutte le implicazioni del c.d. “pacchetto igiene”, impianto legislativo del 2004).
Residuale, ma sempre attuale, la produzione di una trippa ottenuta, dato che l’equino è monogastrico, dall’intestino cieco, vero compartimento di demolizione biochimica delle fibre, come il rumine per i bo- vini, di cui riconosce le identiche tecniche di preparazione e cottura.

Il più grave difetto, per molti un pregio, della carne equina è che la sua qualità risente, più che di ogni altra specie zootecnica, delle influenze dell’alimentazione impropria.
L’utilizzo spropositato di sottoprodotti, conferisce alle carni odori e sapori sgradevoli.
Un buon pascolo e un’alimentazione sana sono la base del successo di tale consumo che, almeno in alcune regioni italiane, Puglia in testa, colloca l’equina al primo posto dei consumi di carne, ex equo con quella ovina.
Esiguo è il numero di capi e razze disponibili sul territorio italiano; sono appena segnalate movimentazioni di equini da macello, per lo più meticci o di razza avelignese, in fiere bestiame a carattere locale in Basilicata, Campania e Abruzzo, mentre rimane notevolissima la quantità dei capi importati vivi dai paesi dell’Est europeo, vera culla di origine di molte razze equine pesanti (con Polonia, Lituania e Bielorussia in testa), dalla Francia e Spagna (di razza bretone e belga), anche se va sempre più diffondendosi l’orientamento a importare carni macellate (sia dall’Est europeo che da Canada e Usa), onde evitare agli animali lo stress da viaggio e le relative conseguenze negative che, come per tutte le specie, influiscono negativamente sulla qualità stessa delle carni.

di Michele Polignieri
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