Americano, il primo cocktail… all’italiana
- Stefano Gallerani
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Mauro Mahjoub e Lucio Tucci
L’ora dell’Americano
pp. 188, euro 19,90
Hoepli, 2021
Si tratti di un addetto i lavori o di un flâneur dei banconi, di un indaffaratissimo professionista dello shaker o di un disinteressato dilettante dal bicchiere facile, per qualsiasi appassionato di drink e bere miscelato la libreria è – o dovrebbe essere – importante quanto la bottigliera: se la prima scarseggia, la seconda scorrerà a vuoto; viceversa, i libri saranno solo lettera morta e i vetri dei semplici vuoti a rendere.
È se è vero – come è vero – che la storia siamo noi, è anche vero che noi siamo ciò che beviamo almeno quanto siamo ciò che abbiamo bevuto e quanto bevevano i nostri padri e i padri dei nostri padri prima di loro.
Partendo da questo semplice e indefettibile principio di buon senso, il risultato è che, pur non giganteggiando come quella a stelle e strisce, l’araldica alcolica italiana non è seconda a molte altre, anzi: il suo è infatti un albero nobile e prestigioso di cui liquori e derivati del vino rappresentano i rami maggiori e di più distinto lignaggio; e proprio dal loro matrimonio – liquore amaricante (bitter) da un lato e un vino aromatizzato e fortificato (vermouth) dall’altro – nasce, complice una spruzzata di acqua frizzante, il primo cocktail italiano. Per ricordarcelo (che ripetere non fa mai male, soprattutto quando si crede di sapere tutto ma si conosce poco), ne L’ora dell’Americano Mauro Mahjoub e Lucio Tucci ricostruiscono genesi, splendori e, forse, futuro di questo campione primigenio. Dagli albori del Novecento fino ai giorni nostri passando per varianti, ricette registrate, aneddoti e sorvoli d’epoca, Mahjoub e Tucci non si limitano solo a compilare la prima monografia italiana sull’argomento (volume che, idealmente, va a far coppia con quello dedicato da Luca Picchi all’altra punta di diamante dei bar nostrani, il Negroni), ma la arricchiscono, senza appesantirla, di dati e informazioni di carattere generale sulla storia della miscelazione tricolore, su come abbia fatto il giro del mondo e sulle mille diramazioni del suo retaggio.
Protagonista assoluto, però, sempre e comunque il nostro: una mistura semplice quanto sapiente che ha radici lontanissime ma fa le sue prime apparizioni ufficiali nell’ultimo quarto dell’Ottocento, un po’ dove te l’aspetti e un po’ dove meno avresti immaginato. Ancora privo del nome che lo renderà celebre, difatti, @mauro_kingofnegroni e @drinksmixworld (così Mahjoub e Tucci su IG) scovano tracce dell’Americano tanto in una commedia dell’attore meneghino Edoardo Giraud (1882) che nel manuale pratico di ospitalità curato nel 1889 da Émile Lefeuvre: “Vermouth di Torino al Fernet Branca”, così lo chiama il capo barman del Cosmopolite di Parigi, e per prepararlo versa in un bicchiere del vermouth torinese, altrettanto Fernet-Branca, poi ghiaccio, acqua gassata et voilà, ecco servito quello che maître Lefeuvre considera, a ragione, l’aperitivo preferito degli italiani. Da qui in poi comincia la conquista del globo da parte di un cocktail che come tutti i grandi classici affonda le proprie radici nella leggenda prima ancora che nella storia; contese tra abitudine collettiva o estro individuale, infatti, diverse le teorie dispiegate per far chiarezza tra le nebbie del passato, ma che sia stato inventato per celebrare le gesta del pugile Primo Carnera oppure per rendere omaggio alle città che con il loro ingegno alchimistico lo hanno reso possibile (Milano e Torino, ovvero MiTo), poco conta. Quello che davvero importa è come, da più di un secolo, lo spirito di un’epoca e l’aura di un mondo – quelli rievocati con efficacia e acribia documentale dai due autori de L’ora dell’Americano – si siano trasmessi, rinnovandosi e adattandosi, di generazione in generazione, di continente in continente. Il segreto di un simile successo? Lo stesso che normalmente si nasconde dietro tutte le manifestazioni di genio umano o geografico: un’equa distribuzione di arte e caso. La prima, quella di una civiltà enogastronomica che nel corso dei secoli ha versato nei bicchieri un bagaglio di esperienze ineguagliato e, per certi versi, ineguagliabile; il secondo… beh, il caso è il caso, e la sua natura misteriosa come le sue vie. Un esempio? La leggenda – un’altra, l’ennesima – che vedrebbe nascere proprio da una correzione alla ricetta originale dell’Americano il secondo cocktail più bevuto al mondo dopo l’Old Fashioned: il Negroni (nient’altro che un Americano addizionato di gin invece che di seltz). Così come è sempre il caso a aver dato corpo liquido, per un errore, al Negroni sbagliato, ovvero, di nuovo, un Americano in cui le bolle non sono più quelle impalpabili della soda ma quelle trevigiane del prosecco. E per capire come il caso operi tanto misteriosamente quanto chirurgicamente, immaginereste, oggi, per uno straniero, un Grand Tour del Belpaese senza Negroni, Americani, Sbagliati e, già che ci siamo, quel loro cugino simpatico ma un po’ scemo che tutti chiamano come un cane ubriaco: Spritz? Ovviamente, la domanda è retorica, perché l’Americano e la sua famiglia sono, come sottolinea anche l’eminenza di David Wondrich nelle due paginette che aprono il volume di Mahjoub/Tucci, drink a loro modo perfetti, specie di questi tempi: bassa gradazione, sapore complesso e preparazione semplice. Un trittico praticamente insuperabile. Pure, fa piacere, nella terza sezione del libro, vedere come alcuni grandi nomi del bartending nostrano e internazionale abbiamo accettato, con la giusta misura di rispetto e dissacrazione, di ritoccare la formula magica dell’Americano personalizzandolo spesso con pochi ma interessanti colpi di barspoon: ecco, allora, l’Americanello del “Maestro” Salvatore Calabrese (con una soda preparata appositamente e del succo di melograno), il Bonga Barta caffettoso di Giovanni Ceccarelli, il Forte & Gentile (come la sua regione) dell’abruzzese Luca Cinalli o il Rinforzato bianco di Patrick Pistolesi and many many others (per non dire delle versione d’avanguardia – irriproducibili in casa – di Giacomo Giannotti e Dario Comini). A chiusura del volume, come accennavo, una breve storia del bere miscelato particolarmente gustosa nella sezione italiana e in quella dedicata ai ricettari e ai manuali che hanno fatto scuola, ma ancor più piacevolmente sorprendente nella sua “guarnizione”, dove spicca, ripescata da un mercatino di libri usati, questa pagina della rivista “La Donna”, datata 1926: “Vermouth o cocktail? La signora up to date preferirà certamente il cocktail, la bevanda fantastica e varia che si è imposta, detronizzando i nostri vecchi semplici aperitivi che dalla loro prigione di vetro col piccolo cappuccio di ceralacca o di stagnola sembravano rivolgersi verso di noi – come dice Baudelaire – con canto pieno di luce e di fraternità. Il perfetto barman deve saper creare i più sapienti miscugli, dosando con abilità profumi e sapori per soddisfarei il mutevole gusto dell’amatore; ma anche la buona padrona di casa deve poter offrire ai suoi ospiti lo squisito cocktail per il quale diamo qui qualche ricetta”…
Ecco, allora, la mia, che in chiusura vale come ringraziamento e “complimento” a Mahjoub e Tucci per questo utile e generoso contributo alla nostra “salute”:
The Perfect Colour
20 ml London Dry Gin
30 ml Bitter Campari
20 ml Americano Cocchi
10 ml vermouth dry
2 gocce di Aromatic Bitters
Top di Soda
Stefano Gallerani è nato il 4 ottobre del 1975 a Roma, dove vive lavorando in televisione. Suoi articoli e saggi sono apparsi su «Alias», supplemento letterario de «il manifesto», “l’Unità”, “Il Mattino” e “Playboy”. Collabora con le riviste «Il Caffé Illustrato» e «L’Illuminista». Altri contributi sono apparsi su “Nuovi Argomenti”, «Alfabeta2», «Il Giannone», «Allegoria» e «Reportage». Nel 2014 ha pubblicato “Albacete” (Lavieri). Il suo ultimo libro. “A Buenos Aires con Borges” è uscito nel giugno scorso per i tipi di Giulio Perrone Editore.