Barbera 2018 Seghesio

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Il Barbera 2018 della Azienda Agricola Seghesio

Quando alcuni anni fa ero andato al California Dreaming Festival di Cracovia, organizzato con il concorso dell’Ambasciata americana in Varsavia, alla presenza del console Mr. Wayne Molstad e dell’amica Jolanta Ganczewska che scriveva sulla rivista americana on-line Wine Business, pensavo di annoiarmi con i soliti, triti e ritriti vini californiani malridotti nel legno dolce oak barrel ageing, quelli che ormai mi uscivano e continuano a uscirmi anche dalle orecchie. Invece, accanto ai nomi più famosi della loro enologia e osannati ormai in tutto il mondo dagli assuefatti all’omologazione e alla globalizzazione del gusto (come i marchi Gallo, Mondavi, Paul Masson, Sutter Home, Rossi e mi fermo qui perché ce n’erano più di 40), mi era scappato l’occhio su un tavolo dalla tovaglia dalla foggia sicuramente italiana di buon cotone bianco dove avevo letto ben in grande Seghesio e avevo pensato per un attimo al nostro produttore di Barolo e di altri eccellenti vini dal profumo libero come l’aria che respirano.

Mi dicevo che ma no, non può essere, sarà un altro dei tanti cognomi di emigranti che hanno fatto grande l’America… e stavo per raggiungere i tavoli di degustazione di Ironstone, Villa Mt. Eden, Sequoia e Fetzer, che mi sembravano più interessanti (e, in effetti, sono ancora tra i miei californiani preferiti), quando un altro provvidenziale colpo d’occhio mi era scivolato sulle cinque bottiglie con le etichette tutte uguali di Zinfandel, scritte in normalissimo corsivo nero su fondo bianco, senza i soliti fronzoli colorati tipici delle americanate, e su un’altra, solitaria, con un’etichetta rossa di Barbera, tutto qui.

Come mai, pensavo ancora, un tavolo così grande presenta soltanto due vini? Che sia un piccolo produttore accerchiato dai colossi? E allora per solidarietà mi ero fermato per guardare meglio. Sì, avevo intuito giusto, cinque Zinfandel tutti della stessa annata e un Barbera. A dire il vero, ero andato lì con l’intenzione di assaggiare tutti gli Zinfandel possibili, perciò ho detto a Camille Seghesio (che poi ho scoperto essere proprio la nipote del fondatore dell’azienda Seghesio nella Sonoma County, www.seghesio.com), una ragazza che viveva nella nebbiosa Londra anziché nella solatia California perché da lì poteva commerciare meglio i vini della sua famiglia) che non volevo nemmeno assaggiare quel Barbera, perché un vino così vivo, piacevole e popolare in Italia, non ce lo vedevo proprio a morire malamente nel legno dolce dei barrels di rovere dolce americano tagliato volgarmente a sega e nemmeno a spacco…

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Alla ragazza era però scoppiata subito una risata divertita, infatti mi aveva detto che era contraria pure lei alle esagerazioni tostate del Nuovo Mondo, e mi aveva chiesto allora quale dei cinque Zinfandel avrei voluto assaggiare. «Ma che, sta scherzando? Non sono tutti uguali?». Ebbene no. Erano tutti della stessa annata e della stessa tenuta, infatti, ma in quel vigneto ci sono ben cinque appezzamenti piantumati con viti di oltre 120 anni, viti di 90 anni, viti di 60 anni, viti di 30 anni e viti più recenti. Il tempo di macerazione sulle bucce era lo stesso, dieci giorni, ma cambiavano i tempi di vendemmia (pochi giorni per ciascuna parcella dal 24 settembre al 23 ottobre) e anche l’elevazione in legno era differente.

Ognuno aveva un percorso di legni diverso: il primo al 100% in barriques di rovere francese per pochi mesi, il secondo in almeno 1/3 di barriques francesi nuove per dieci mesi, il terzo al 75% in barriques francesi e al 25% in barrels americani per dieci mesi, il quarto viceversa e per 11 mesi, il quinto come quest’ultimo ma con 1/3 di barrels nuovi per 10 mesi. Il tenore alcoolico variava fra loro di pochi decimi, tra 14,4% e 15,3%. Anche gli abbinamenti suggeriti con le pietanze erano diversi, consigliati dalla cultura e dal genio tipico di un vignaiolo albese che aveva così voluto realizzare dei vini leggermente differenti per delle portate che lo sono, in effetti, anch’esse. Tutti ampiamente sperimentati nelle lunghe tavolate con gli ospiti che vanno a trovarli laggiù in California all’estremità settentrionale della Sonoma Valley, a Healdsburg.

Già con queste premesse, anziché con la prevedibile marmellata di barrels, al naso e al gusto ho potuto apprezzare dei signori vini di Zinfandel, anzi Zinfandello, come è chiamato da tutti i Seghesio perché i nonni Edoardo e Angela, i fondatori dell’azienda nel 1895, lo chiamavano proprio così. Profumi del meridione italiano, sole, frutta, pizza, c’era una freschezza sorprendente in quei vini che sembravano realizzati nel Salento, a Sava, a Manduria. Il legno non lo si percepiva proprio, complimenti davvero.

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Ma l’origine di quelle piante non era, come avrei potuto anche supporre, nella nostra Puglia (che è patria invece dell’uva Primitivo, ritenuto dai più lo Zinfandel di casa nostra), bensì nella Croazia. Era dalla costa dalmata che i nonni avevano importato delle barbatelle di Plavac Mali, quel simpatico Zinfandello che cattura di più l’aria del mare e la trasforma in un vino meravigliosamente complice delle grigliate di salsicce, che fa rosse le gote delle ragazze e la punta del naso degli sbarbati e va benissimo anche quando se si acchiappa e si arrostisce qualche leprotto.

Intanto sullo stesso tavolo era magicamente arrivata anche una bottiglia di Sangiovese, sempre etichetta rossa, sembrava di essere sui Colli Bolognesi da quanto profumava quando Camille lo aveva stappato, ma era tutto aroma d’uva, non di barilotti. Che scuola! In America, in California, mai si potrebbe pensare che esistano dei vignaioli come questi Seghesio e degli enologi purosangue italiani come Alberto Antonini, con tanto di olfatto e di gusto ancora ben piantati sull’originario, sulla vinificazione non forzata, sull’amore piuttosto per la bevanda viva anziché per i dollari. Che sarebbero triplicati sicuramente, se soltanto questi Seghesio avessero deciso di allungare di cinque o sei mesi le permanenze in barrels per vendere in questo modo dei vini già un po’ morti, quelli che così come sono non cambiano più e puzzano di fegato crudo come piace a quei necrofili anglosassoni che assegnano punteggi ai vini visto assegno, come ne ho trovati parecchi in quel pomeriggio alo stesso Festival. I numerosi stranieri presenti con me, da quel Sangiovese piccolo vinificato alla grande in Sonoma County hanno potuto capire cos’è il Sangiovese vero («un perfet ardit»), non quello dei supermercati e dei bottiglioni. Cosa potevo dunque fare, se non sorridere commosso a tanta vigoria e decidermi, ebbene sì, ad assaggiare quel Barbera?

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Barbera Seghesio, vigneto di Home Ranch, la prima tenuta dei nonni Edoardo e Angela (originari di Dogliani e Varano Borghi, poveri di risorse ma ricchi di cuore ed iniziativa) in Alexander Valley, vicino al Russian River, località Lake County. Quanta strada hanno fatto questi nostri esemplari compatrioti che sono stati capaci di trasmettere così bene ai figli e ai nipoti l’amore per la terra, il rispetto delle tradizioni e la voglia di emergere. Oggi sono circa 121 ettari vitati ecosostenibili, ma nel 1895 avevano cominciato solo con una ventina, davano le uve all’Italian Swiss Colony, tutta la famiglia dormiva in due sole camere e fino al 1902 non avevano nemmeno i soldi per costruire il sogno di una vita, cioè una vera e propria cantina.

Nonostante il successo di tutti gli altri vini (tra cui anche Aglianico, Petit Sirah, Pinot Noir, Merlot, Cabernet Sauvignon, Pinot Grigio, Arneis e Chardonnay oltre ai due già citati), il Barbera, che era vinificato dalle uve di viti piantate nel 1896 e provenienti dall’albese, è stato snobbato per molto tempo dagli americani. Soltanto recentemente è tornato a risplendere ed a guadagnare popolarità per quel carattere vispo, lussurioso e per quei suoi profumi di piccoli frutti rossi che ben si accompagnano al piacere di bere. Con questo vino si può, perché nonostante un tenore alcoolico oltre il 14% (l’annata 2018 ne ha il 14,9%) non provoca quei fumi in testa tipici delle cucchiaiate di anidride solforosa che in Italia molti azzeccagarbugli dei legni aggiungono per riuscire ad appiattire il vino fino al gusto bordolese mal esportato a Los Angeles.

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Questo è un Barbera che si distingue nettamente, quasi fosse un altro pianeta, dagli stereotipati e stantii vini di stile hollywoodiano; respira, rinfresca, punzecchia, scalpita e soprattutto scalda (e non solo il cuore), infatti si sente tutta la naturalezza della sua vigna e non la puzza di cantina, vita all’aria aperta e giornate caldissime, in un posto però protetto dalle correnti marine, come vuole il Barbera, anche se non è ”di scoglio” come il Plavac Mali. Suoli argillosi e strutture di basalto e arenarie, di contenuto assai povero e che nel vino sviluppano lentamente perfino gli aromi più complessi. Rese massime di 100 quintali per ettaro, alla piemontese. Le viti di questo Barbera sono state piantate nel 1960, perciò il vino sviluppa nel bicchiere in modo graduale i suoi profumi, vuole ancora ossigeno per sprigionare tutta la sua gioventù, che risulta ben equilibrata con un’acidità classica proprio come si sa fare in quel di Alba, cioè semplicemente maturata, ma non forzata, da 15 mesi in barriques di rovere francese per un terzo nuove, dopo una macerazione per 10 giorni sulle bucce e una fermentazione effettuata tutta in tini di acciaio inox.

Vino dal colore rubino brillante, fulgido, dal bouquet delicato, che si sprigiona con straordinaria calma e accompagna lo svilupparsi graduale in bocca dei vari sapori: ciliegia, mirtillo, fragolina di bosco, cannella, garofano. Poi si parte per la tangente con una serie di gusti netti, prima di chicchi di melagrana e poi di buccia d’acino duro ma succoso, di quelli che si tiravano con le fionde da bulletti e spiaccicavano il colore della prugna sui muri imbiancati e sui musi duri delle bande rivali e chi ne ha beccato anche uno solo sul grugno sa bene che gusto ha ed è quello vero e genuino del Barbera…

Niente di tanto simile e naturale c’è in California, mi ritengo fortunato per aver incontrato perciò Camille e questo vino caparbiamente piemontese, che nasce in faccia ad Oakland e San Francisco. Un vero goal in trasferta, speriamo che gli americani imparino finalmente da qui a bere anche qualcosa di piacevole.

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