Cibi e bevande nelle relazioni di Pietro Querini (parte sesta)

pietro

La vita dei naufraghi era veramente disperata

(continua da qui)

Nel gelo di un inverno polare, riparati solo da due tende costruite con le vele della loro scialuppa di salvataggio, riscaldati da un misero fuoco fatto dal fasciame impregnato di pece che rendeva l’aria irrespirabile, e coperti di parassiti, come si legge nella relazione di Pietro (la “Vaticana”):
“Eramo 13 in una copertura e 3 in un’altra; iazendo sopra la neve et parte sedendo, se scaldavemo ad asai debel fuoco; perochè la pegola (NdR:la pece) bagnata supra i diti legni fazeva tanto fumo che appena lo podevemo suportare, ne avene che li ochi e ‘l volto se infiò (si gonfiò) per modo che squasi eramo privati del vedere apreso (vicino); poi nui tanto abondasemo in tanto vermenezo (vermicaio) de pedochi che in verità a pugnade li butavemo in nel fuoco, e, tra li altri stupendi azidenti, sopra el colo (collo) de un mio scrivanelo (secondo Ufficiale), ne aveva tanti che li avevano roduto la carne, che perfina a nervi erano penetradi, che stimo fuseno caxon potissima (la cagione principale) de la sua morte”.

La situazione, tragica, però sta per migliorare, perché, sempre dalla “Vaticana”, si apprende:

“In capo de zorni 11, andando un mio fidelissimo fameio (“Famiglio”, servitore in veneziano) al procazo de pantalene (patelle di mare), perché altro non era zibo e refugio nostro, avene che in capo de uno scolio atrovò una casupola construta de legnami a lor maniera, e intorno a quella e dentro iera sterco de boino, siché chiaro cognoser se poteva da nnovo (da poco) lì eser stado anemali de quela sorte et simile, a modo che zente umana li praticaxe”.

Portandosi dietro il legname del relitto, e, continua Pietro
“…io aveva una mia anconeta (piccola tavola con disegno religioso) con un mio cruzefiso che mai non mi arbandonò né io lui, se andasemo verso la dita casa”.

Qui, rimasti in 11, trovano rifugio dal vento e dalla neve, ma continua la ricerca del cibo che trovano sulla spiaggetta, le solite conchigliette, ma qualche giorno dopo, a cinque compagni che andavano alla ricerca…

dalla relazione dei due Ufficiali di bordo (Marciana):
“…La voluntà divina, come nel dexerto satia zinquemila creature de zinque pani e duo pessi, cusì a questi mandò uno pesse chiamato porco marino, over pesse balena.
Lo qual considerando eser sula rena del lito, gitato dal’aqua, morto, fresco, grasso assai e buono, la fede ne porsse ardire esso Dio satiar volle li tanti estenuati corpi bisognanti de quelo.”

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La salvezza alimentare, dunque? Un miracolo? Ecco come Pietro racconta il fatto nella sua relazione.

Dalla “Vaticana”:
”L’andata nostra in quela caxa fu de dì zuobia (giovedì); soprazonse el sabado, che fu zorno a noi salutifero, perché, esendo andati tutti ezeto io per pantalene, avene che uno de la misera turba trovò un pese mirabile morto sopra lo lido del mare, grande del pexo de libre 200 ala groxa, el qual iera ancor caldo. In che modo si fosse posto non lo sapiamo, ma ben dovremo creder che el misericordioxo Dio per salvarne cusì permetexe, e colui che lo trovò comenzò a chiamare di soi compagni nonziandoli la grazia sopravenente, siché, diviso in più pezi, el portono ala casita dove io aveva azeso uno debel foco”.

A ‘sto punto, necessitano alcuni chiarimenti su questo straordinario avvenimento:
che pesce era veramente quello, sconosciuto e mirabile, che nella “Marciana” viene definito “Porco di mare o Balena”, e di che peso era, valutato oggi in kilogrammi?

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Le mie ricerche lo hanno identificato con certezza in un HALIBUT, in italiano “Ippoglosso” (vedi la foto) che vive nelle profondità atlantiche, le cui carni sono di ottima qualità e molto ricercate, poiché morbide, cremose (oggi si dicono “Umami”, come per il “Sushi”) e ricche di vitamina “Omega”, come lo stoccafisso: il suo prezzo nei nostri mercati ittiologici si aggira (quando lo si trova…) sugli € 20,00 al kg.

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Sono pesci di grandissime dimensioni, che arrivano oltre il quintale, e quello, che Pietro stima in 200 libbre, doveva pesare circa 90 kg, considerando che la “Libbra Veneziana Grossa” era di 477 grammi ca.

Ma, per sapere come i sopravvissuti naufraghi vissero questo fortunoso incontro con la sopravvivenza, torniamo alla narrazione, sempre dalla “Marciana”:
“Considerate auditori (NdR: Pietro si rivolge ai lettori della relazione) che, oltra la letizia de questo salutifero pexe, concorxe la debita solezitudine a quoserne (cucinarne) parte quale se poneva in caldiera (caldaia, una grossa pentola) se atroviamo, e quale ne le debile brise (nelle deboli braci), siché al sentimento de l’usta sua (nel sentire il suo l’odore) alguni de li compagni non erano azonti (non erano giunti) sopravene con stupendine ,,,,(stupore) che avevano sentito inconsueto odore; per la bramosa volia di mangiare, non aspetando che el fuse in tuto coto, comenziaseno a gustarlo, e per zorni 4 senza riegola alguna contentasemo (accontentammo) la familica gola, poi, videndo mancare, fu aricordato (accordato) che a mesura de zetero (di ciò che restava, di altro, dal latino ‘Coetera’) fuse destribuito”.

Razionamento, quindi.

Oggi, mangiar pesce crudo è Trendy (“stasera Sushi!”), ma nello scoglio di Sandoy, nel gelido inverno Artico del 1432, per i naufraghi veneziani è stato riportarli alla vita…

(Continua)

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