Ha frequentato fin dagli inizi Collegium Vini e i suoi corsi di formazione e degustazione, si presenta in molte città della Polonia alle degustazioni di vino organizzate dalle ditte e dalle associazioni più diverse, cerca con avidità tutto ciò che lo incuriosisce anche nelle riviste on-line italiane (pur non conoscendo la lingua, tanto che ricordo ancora quando trovò notizie sul Narbusto di Angelo Ballabio, sconosciutissimo in Polonia), partecipa attivamente ai dibattiti e soprattutto ha un naso… genuinamente dotato per i vini del massimo livello qualitativo, virtù assai rara anche nel nostro Paese, eppure è un uomo molto umile.
Formato a Cracovia dal presidente della SSP (Associazione polacca dei Sommeliers), Wojciech Gogoliński, un gigante che tutti imparano prima a rispettare e poi a capire, ma che si fa subito amare per la profonda conoscenza dei vini, Darek ha voluto un bel giorno andare a Varsavia a curiosare anche in un corso tenuto da Marek Bieńczyk, che lo conduceva nella capitale.
Quel libro è difficile anche per i Polacchi, testimone mia moglie (laureata in medicina, specializzata in neurologia, famiglia di laureati), che spesso ha dovuto tirare a indovinare con certi termini usati dall’autore, dimenticati perfino dai vocabolari e dai glossari più diffusi poiché sono il frutto di quella lingua ricercata che appartiene agli ambienti colti, alle Università e ai circoli degli intellettuali della capitale.
Forse il tono della traduzione non sarà tanto ironico come quello della versione in lingua originale, ricordo che i Polacchi cambiano spesso anche la vocalità e la musicalità dell’espressione della parola per indicare una differenza anche fondamentale nell’uso della stessa, capovolgendone perfino il suo significato. Un po’ come le amate che al momento topico dicono quasi sempre… di no, ma ci sono dei NO! perentori che equivalgono a un vero diniego e dei nooooooo che sussurrati al buio assomigliano tanto invece a un seducente, erotico, siiiiiii…
(Il traduttore: Rolando Marcodini)
I Tedeschi sono precisi. Gli Italiani sono chiacchieroni e i Francesi mangiano ogni giorno un formaggio diverso…
In qualche posto è così che i giudizi (e i pregiudizi) sulle caratteristiche dei popoli costituiscono un terzo delle nostre cognizioni sul mondo e la metà delle nostre incrollabili certezze.
Le fondamenta di queste considerazioni gradevolissime sotto il sole, adatte a riempire ogni vuoto durante una conversazione, le pose nel XVIII secolo Montesquieu, il quale, nell’opera ”Sulle cause capaci di ampliare le menti”, formulò la teoria dell’influsso dei climi sulla psiche e sul gusto. Poiché il vino è una delle più importanti cause adatte a far crescere le menti, non ci si dovrebbe meravigliare che nei suoi ambienti siano appostate sistematicamente quelle teste che si sforzano di analizzare le differenze tra i gusti dei vari popoli.
Ma davvero in questo caso si possono trovare delle certezze? Mi sembrerebbe di sì, nonostante che io abbia incontrato solo qualche volta dei Tedeschi caotici e dei taciturni mangia-spaghetti. Eccovi un esempio raccontato dal produttore Adolfo Folonari, che una volta invitò una compagnia di giornalisti a una degustazione ”verticale” (cioè l’assaggio dello stesso vino proveniente da una successione di annate diverse). Servì un bianco molto importante, invecchiato in botticelle di legno, con doppia fermentazione, il Cabreo La Pietra Chardonnay.
«Dell’annata ’83 non si avvertiva il legno, tanto era fruttato. Ai Tedeschi piacque molto, gli Italiani non ne erano troppo sicuri, agli Americani sembrava troppo leggero. L’85 era molto più rotondo, con un piacevole equilibrio di fruttato e di legno e una buona acidità e ai Francesi era piaciuto moltissimo. L’87 evidenziava potentemente il legno, gli Americani impazzivano di piacere, ma gli Italiani pensavano che forse si era guastato…».
Prima di tutto c’è una differenza tra il gusto americano e quello europeo. Il primo ama vini (soprattutto Chardonnay) grassi e burrosi per effetto di un lungo soggiorno in botticelle di legno nuovo. Il secondo preferisce (soprattutto nei vini bianchi) le note minerali, molto secche, oltre a un alto livello di acidità (da non confondersi con l’asprezza).
All’inizio dell’anno è stata organizzata a Londra e a San Francisco una degustazione ”al buio” di una quindicina di vini identici, allo scopo di verificare contemporaneamente le reazioni dei palati americani e inglesi. Il punto di partenza era proprio la tesi sulla ”regionalità dei palati”.
I palati californiani, accanto al consenso per l’invasiva presenza della botte, avrebbero dovuto apprezzare soltanto questa piuttosto che i vini più invecchiati, cioè quelli in cui avrebbero avvertito la presenza del fruttato anziché quella del mantello animale, e avrebbero dovuto andare generalmente in visibilio con i vini dall’estratto potente. Nonostante tutte le differenze fra i giudizi dei singoli partecipanti, sono state confermate in pieno le premesse più importanti.
I Californiani non hanno avuto alcuna pietà per gli invecchiati, mentre i Londinesi hanno bevuto volentieri quei vini in cui il fruttato si presentava elegantemente e umilmente e non dominava come uno strato di marmellata sopra una sottile fetta di pane tostato.
Sullo slancio della rincorsa, questa domanda ci deve portare inevitabilmente sulla Vistola e sul Narew per riuscire a ficcarci fin dentro i bicchieri apprezzati dal gusto polacco.
Sì, gli Inglesi sanno cosa significa la longevità per il vino.
Sì, i Francesi apprezzano soprattutto l’equilibrio di tutte le caratteristiche, assortite in modo adatto affinché possano padroneggiare fra queste le sensazioni di una perfetta armonia.
Sì, gli Italiani amano qualsiasi vino gli pizzichi la lingua.
Sì, i Tedeschi bevono un po’ di tutto, ma soltanto se giovane e fresco come una Helga pronta da maritare.
Noi che amiamo l’idillio poetico ma poi, se non beviamo, non dormiamo? Ahimè, purtroppo! Per quanto riguarda il vino siamo la lanternina rossa in coda ai popoli, siamo l’ultimo autobus con il cartello ”fine delle corse”. Perché, perché? Perché secondo tutte le statistiche ci piace dolce! Rosso dolce, bianco dolce, vermut dolce, i vari cin-cin e altre schifezze dolci sono il nettare preferito delle nostre labbra e l’incubo dei nostri fegati. Sono loro, queste dure caramelle sciolte in bocca, l’incancellabile e immortale sinonimo di vino in ogni negozio fuori città e in ogni comune secondario. Cosa ancora? Quante volte ho sentito di casi di dolcificazione dei vini secchi, pur di non sentirne l’amaro e non buttarli nell’acqua come si tuffano le cicogne nei Paesi più caldi…
Il comune palato polacco non tollera nient’altro che questo, non certo le manciate di tannini amari nei vini rossi, né il gusto minerale nel vino bianco. Per questo può continuare a bere vino di Sòfia e mandare a quel paese tutto il mondo, così com’è.
Ascoltate: «Per 2 franchi a Palais Royal posso avere un pranzo molto buono (zuppa, tre o quattro pietanze e il dessert) con mezza bottiglia di vino. Le pietanze si scelgono sul menu, nel quale c’è da perdersi fra cento diverse, e si può ordinare la più raffinata. Il vino è ordinario abominevole».
Così ha scritto Juliusz Słowacki alla madre. Così ha scritto e così ci ha salvato. Così che nessuno, nemmeno un componente di quei popoli dalle tradizioni più vinicole, possa mai trovare una simile definizione tanto geniale. Chi mai, parlando del vino, sa accostare così meravigliosamente due aggettivi? Ordinario abominevole (sconfitta tramutata in vittoria, realtà in festa, cattivo in accettabile, fatale in letteratura). Se anche l’esistenza ci dovesse ancora condurre per le paludi dei vini di Sòfia e di Eger, per i prati sconfinati dei Liebfrauenmilch e dei loro simili, per le depressioni dei cibi quotidiani e per le montagne delle quotidiane preoccupazioni, abbiamo a portata di mano queste due parole con le quali ci difendiamo da ogni incompiutezza.
Marek Bieńczyk
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