Dietro le quinte
- redazione
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Quando ci si reca in un ristorante, in un bistrot o in semplice pub con cucina annessa, solitamente ci si sofferma ad osservare il visibile e cioè l’arredamento generale, il personale di sala, per poi focalizzare l’attenzione sui piatti che vengono serviti.
Raramente si ha visione degli chef. Mai del personale di cucina.
La famosa brigata che alcuni format televisivi hanno ormai fatto conoscere ai telespettatori ma che, terminata la puntata, tornano ad essere anonimi soggetti inesistenti. Motivi igienici e di sicurezza sono decisamente blocchi invalicabili a chiunque sia curioso.
Si dice sempre che parla il piatto con la sua presentazione, con i suoi aromi e profumi, con l’accostamento degli ingredienti tra di essi e con l’accostamento delle bevande suggerite dal sommelier (quando presente) o scelte personalmente. Degli chef sappiamo tutto o quasi e più sono famosi (televisivamente parlando), maggiore è la loro conoscenza non solo dei piatti e dei prodotti maggiormente usati ma anche delle loro vite private o di quello che fanno in bagno (il riferimento ad uno chef stellato, è puramente “intenzionale”).
Ma nulla sappiamo del personale di brigata, dei loro nomi, della loro vita privata e della dedizione e passione che inseriscono nella composizione dei piatti che poi gustiamo ma che portano esclusivamente la firma dello chef che lo ha composto o che ne ha ideato la ricetta.
Io ho avuto la grande fortuna di conoscere alcuni di essi, favorito dalla frequentazione di locali in cui potevo entrare non solo come cliente.
Molte le storie, le figure, i sogni e le realtà che circondano questi professionisti, condannati ad un rango di semplici comparse e di cui la maggior parte nessuno se ne preoccupa circa il loro ruolo.
Lo chef calamita qualsiasi attenzione su di sé quasi fosse lui e lui soltanto l’unico autore/fautore/attore a preparare il piatto, cucinandone gli ingredienti, partendo dalle più semplici azioni di pelare una patata o tritare una cipolla (ma fa più “figo” lo scalogno), sfilettare un pesce, condire una misticanza, preparare un risotto, far bollire gli spaghetti, ecc. ecc.
Nulla di tutto questo in una cucina – non solo stellata – ma un numero di addetti a cui viene assegnato un compito parziale che, una volta assemblato, dà origine al piatto finito e servito.
Una persona in particolare mi ha colpito: Stefania Milani.
Ottima pasticciera che sa trasmettere la sua semplice personalità e la passione per i dolci in tutte le sue proposte.
Conosciuta durante una presentazione di vini e prodotti di nicchia, è nata immediatamente una confidenza e una stima che si è via via trasformata in amicizia. Mi hanno colpito la sua semplicità e allegria, oltre alla ben nota schiettezza comunicativa, tipica dei toscani, che trasmette un senso di fiducia e di affetto immediato.
Stefania Milani è una delle tante figure di secondo piano, di quelle che molto difficilmente saliranno agli altari delle cronache enogastronomiche o che riempiranno gli schermi televisivi, eppure le sue torte, i suoi dessert, i suoi dolci al cucchiaio ed altro ancora permettono la fortuna e il mantenimento dello status di “ottimo” ai locali dove presta servizio, lavorando dietro le quinte in un angolo di cucina, da sola e quando la brigata non è ancora entrata in scena.
Il suo è un lavoro solitario, il classico lavoro dietro le quinte, che sarà servito in sua assenza e i cui apprezzamenti saranno fatti ad altri.
Ma nelle sue composizioni, nei suoi gesti, nell’accostamento di prodotti diversi, si evidenzia tutta la passione per questo lavoro e il grande amore di mamma (lei preferisce “zia”) che è facile trovare solo nella propria cucina domestica, durante la colazione o al termine del pranzo domenicale, proprio come si usava una volta, quando i profumi della torta alle mele richiamavano tutti al desco mattutino.
Grazie Stefania per questa amicizia.