Due Mondi per un calice: il Vecchio e il Nuovo
- Rolando Marcodini
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Il mondo del vino è impegnato in uno scontro commerciale tra il Vecchio Mondo e il Nuovo Mondo, che poi è uno scontro fra due modi differenti d’intendere l’enologia.
I produttori europei (Vecchio Mondo) credono nella tradizione e nei regolamenti giuridici. I produttori d’Oltreoceano (Nuovo Mondo) puntano su tecnologie, innovazioni, ricerche di mercato ma con le mani molto più libere in fatto di regolamentazioni della vitivinicoltura.
Non è facile prevedere quale modo di affrontare il problema vincerà, anche se la superficie vitata del Nuovo Mondo sta aumentando repentinamente e comprenderà molto presto una marea di ettari vitati cinesi.
A un convegno di qualche anno fa a Varsavia avevo ascoltato dalla sua voce un noto adagio della baronessa Philippine de Rothschild, proprietaria del più famoso Château francese, che ai suoi ospiti ha sempre detto che «fare un vino eccellente è veramente una cosa molto facile… soltanto i primi duecento anni sono difficili». Non dimentichiamo che la famiglia Rothschild è in possesso delle sue vigne fin dal 1853, cioè dovrà ancora lavorare sodo per almeno altri 30 anni prima di essere soddisfatta di ciò che produce!
Ciascun critico e consumatore, però, converrà con me che per produrre magnifici vini (anche ”solo” dopo 170 anni come nel suo caso) non è poi proprio indispensabile possedere più lunga tradizione di vinificazione. Prendiamo per esempio la Nuova Zelanda, la cui avventura con il vino è cominciata sul serio soltanto negli anni ’70 del secolo scorso, appena mezzo secolo fa, eppure con una tradizione vinicola ancora così limitata è opinione comune che proprio da questo Paese viene il migliore Sauvignon Blanc del mondo.
Di più. Robert Parker, il più influente critico mondiale di vini e grande estimatore dei vini di Bordeaux ha scritto che Penfolds (l’unica azienda vinicola australiana a ricevere 100 punti sia dalle più famose riviste degli USA, Wine Spectator e Wine Advocate per la stessa annata 2008 del Grange, il più rinomato vino australiano) ha sostituito Château Petrus nel meritare più attenzione e il più eccitante vino del mondo.
Penfolds produce vini straordinari da quasi 150 anni e guida indiscutibilmente lo sviluppo del buon vino australiano nell’era moderna. Penfolds Grange è lo standard di qualità rispetto al quale vengono giudicati tutti gli altri vini rossi australiani.
Del resto la teoria che i vini del Nuovo Mondo possono eguagliare e anche essere meglio dei migliori vini europei non è un’idea di oggi.
Testimonia di questo perlomeno l’esperimento condotto nel 1976 in Francia dal mercante inglese di vino Steven Spurrier che aveva riunito intorno a un tavolo quindici tra i più rispettabili esperti di vino francesi per la più cieca degustazione di vini francesi e californiani.
I vini erano stati scelti dai migliori produttori di quei Paesi fra i rossi Cabernet Sauvignon e i bianchi Chardonnay.
Con grande stupore, tutti gli esperti francesi, che non avevano visto l’etichetta, avevano dedicato i commenti migliori ai vini californiani, sia per i bianchi sia per i rossi. Tra i vini bianchi aveva vinto così lo Chateau Montelena Chardonnay 1973 del dalmato Miljenko Grgić (Mike Grgich) con il punteggio totale più alto di qualsiasi vino in degustazione.
Al danno si era aggiunta anche la beffa e pure al terzo e al quarto posto c’erano due Chardonnay californiani, mentre tra i rossi aveva vinto Warren Winiarski con lo Stag’s Leap California Cabernet Sauvignon 1973 e così quei Francesi provocarono un tale scompiglio, facendo circolare chiacchiere su presunte falsità, tanto che l’esperimento venne ripetuto a grande richiesta due anni dopo… dando gli stessi risultati!
E come appare oggi la situazione? Meglio attenersi ai fatti, che sono meravigliosamente espressi dai numeri.
La Gran Bretagna è un mercato perfetto per l’osservazione delle tendenze mondiali nel commercio dei vini. Questo per tutta una serie di motivi, ne cito solo qualcuno: non ha una significativa produzione propria, da lì viene la gran parte dei critici famosi, è da lungo tempo il mercato tradizionale di riferimento per il commercio dei vini europei e d’oltremare.
Nel corso degli ultimi tre decenni gli eminenti produttori del Vecchio Mondo (Francia, Italia, Spagna, Germania) hanno perso una enorme fetta di mercato a favore dei produttori di vino del Nuovo Mondo, i quali nello stesso periodo hanno quadruplicato le vendite di vino sul mercato inglese e questo sia sotto l’aspetto quantitativo che valutario.
Come spiegare simili cambiamenti drastici nel corso di così poco tempo?
La situazione è più complessa di quanto potrebbe sembrare. Alla caduta delle vendite dei vini europei hanno contribuito a livello maggiore i vini tedeschi, ma questa è solo una piccola parte del mosaico, penso che le cause risiedano più in profondo.
Se prendiamo per esempio la Francia, i vitivinicoltori sono rimasti per un bel pezzo legati dai propri condizionamenti giuridici, quelli stabiliti per assicurare una opportuna qualità dei vini prodotti. Tutto quanto bello e meraviglioso, però se si osservano con più precisione tutte quante le regole prescritte dai sistemi di denominazione AOC e AOCG si evidenzia che esiste un grande numero di vini nei quali i vitivinicoltori d’oltralpe, con rispetto parlando, non se la sono cavata proprio al meglio.
Basti ricordare che nelle annate più riuscite i sono stati costretti ad allungare i vini con l’acqua per rimanere nei dettami della classificazione AOC, che impongono fra l’altro una convenuta gradazione alcoolica (nell’annata buona e solatia, l’uva può accumulare una grande quantità di zuccheri, che si trasferisce in linea diretta nella gradazione alcoolica del vino) e nelle annate meno riuscite i vignerons con la guerriglia di strada hanno svuotato sull’asfalto le cisterne di mosti e di vini provenienti dall’Italia e destinate a rinforzare i loro deboli vini, ma chissà quante decine di altre sono riuscite a passare.
Se poi aggiungiamo a tutto questo che negli ultimi anni si rafforzato il ricorso alle sempre più numerose categorie di Vin de Pays (per i quali le regole giuridiche sono meno onerose e rigide e consentono, infatti, rese più alte e tenori alcolometrici minimi più bassi), allora tutto incomincia a comporsi in una logica d’insieme.
Ma è questo l’unico motivo? Sicuramente no.
C’è ancora un tassello molto importante del mosaico. Come la maggioranza di noi sicuramente sa, gran parte dei vini francesi richiede lunghi anni di affinamento ed è proprio questo che dona quella pienezza e quella complessità che sono doti affermate e caratteristiche.
Ma il consumatore medio dei quattro angoli del mondo è capace di aspettare cinque o dieci anni che la bottiglia comprata nel negozio all’angolo raggiunga la sua maturità? O forse parteciperà alle aste per comprare a una cifra astronomica una bottiglia di vino già maturato? Con sicurezza no. A questo hanno fatto attenzione i produttori di vino del Nuovo Mondo, e ne hanno approfittato.
La tendenza è cominciata in California e oggi il migliore esempio ne è l’Australia. Cosa sarà mai quella caratteristica che attira sempre più larghe masse di consumatori? Niente altro che il carattere fruttato e l’immediata pronta beva. Cos’altro è anche importante? La qualità stabile. La scritta Australia sull’etichetta e la A sulla capsula specificano una superficie vitata d’origine che da sola in totale è molte volte più grande di tutto il territorio della Francia e consente proprio una qualità stabile da un anno all’altro ai vini australiani. Qui non bisogna cercare le annate migliori o peggiori, perché il clima non ha le stesse variazioni capricciose che mostra in Europa.
Questo permette l’uso su scala più vasta di macchinari e tecnologie, nonché lo sviluppo di brand name (marchi di vino) che sono sinonimi di buona qualità. Basta conoscere il nome del produttore e già al buio si può comprare una buona bottiglia per la quale si pagano solo dai cinque ai dieci Euro. Con un vino francese, per la stessa cifra, non abbiamo nessuna garanzia di qualità. Il successivo magnete che attira i consumatori di vino del Nuovo Mondo è l’onomastica che fa distinguere tutti i vini per il nome delle uve dai quali derivano (per esempio Cabernet Sauvignon, Merlot, Chardonnay e così via). In questo modo la denominazione si rivela come un’altra freccia andata a bersaglio.
Per il consumatore medio, avere cognizioni sulla coltivazione delle uve in una certa regione è perlomeno superfluo, mentre così può assaggiare il vino del suo vitigno preferito andando in negozio a chiedere, per esempio, il Cabernet Sauvignon (da dove, questa volta? Dal Cile o forse dall’Africa?). Se il vino è stato prodotto da più di un tipo di uva, si trova l’informazione in etichetta sulle due o tre uve usate, in rigorosa successione relativa alle proporzioni dell’uvaggio o dell’assemblaggio.
Qui è importante ricordare i vini del Nuovo Mondo hanno un gusto secco perfettamente mascherato dal carattere fruttato ed è importante assaggiarli perché, come sappiamo benissimo noi italiani, la pietanza senza vino è già di per sé una punizione…
Ha smesso di giocare in cortile fra i cestelli dei bottiglioni di Barbera dello zio imbottigliatore all’ingrosso per arruolarsi fra i cavalieri di re Nebbiolo e offrire i suoi servigi alle tre principesse del Monte Rosa: Croatina, Vespolina e Uva Rara. Folgorato dal principe Cabernet sulla via dei cipressi che a Bolgheri alti e stretti van da San Guido in duplice filar, ha tentato l’arrocco con re Sangiovese, ma è stato sopraffatto dalle birre Baltic Porter e si è arreso alla vodka. Perito Capotecnico Industriale in giro per il mondo, non si direbbe un “signor no”, eppure lo è stato finché non l’hanno ficcato a forza in pensione da dove però si vendica scrivendo di vino in diverse lingue per dimenticare la bicicletta da corsa, forse l’unica vera passione della sua vita, ormai appesa al chiodo.