È la disinformazione la sorpresa nell’uovo di Pasqua

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Si avvicinano Pasqua e pasquetta, ci aspetta una tavola goduriosa e tradizionalmente ricca, ma nel fare gli auguri a tutti i lettori richiamerei però l’attenzione su qualcosa che sarebbe anche ora di smettere d’ignorare: le peripezie di ciò che arriva in tavola.

 

Certo, non mancheranno anche l’acqua e le bibite per i bambini, antipasti, salumi, pesce e dolciumi, ma ad accomunare sicuramente le tavole pasquali di tutte le regioni sono senz’altro l’agnello e un buon vino, una tradizione che risale a tempi immemorabili. Profumo di campagna, serenità bucolica, bei ricordi di nonni e bisnonni, si dice appunto “felice come una Pasqua”. Ma non è tutto oro quello che luccica. Siamo davvero correttamente informati sulla carne d’agnello che ci propongono per Pasqua e sul vino?

Iniziamo dall’agnello. Magari siamo convinti che tutto ciò che compriamo sia la carne di quei teneri agnelli che sono allevati in zone vicine al luogo di macellazione o provenienti da pascoli famosi come quelli della Sardegna o dell’Abruzzo e invece in gran parte provengono per esempio da Lituania, Bulgaria, Romania, Polonia, Spagna e per arrivare al macello sono stati costretti a viaggiare anche per due o tre giorni. In quei Paesi, come anche nelle nostre Regioni meno sviluppate, molti macelli locali non sono ancora in grado di lavorare le carni secondo le norme igieniche e sanitarie europee e perciò gli agnelli sono costretti a viaggiare vivi.

 

 

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Ecco perché sulle autostrade assistiamo a dei veri e propri viaggi della morte compiuti perfino a temperature infernali su camion che difficilmente si fermano per distribuire agli animali da macello cibo e acqua, facendoli scendere com’è stabilito dalle norme e cioè almeno ogni 24 ore. Anzi, capita invece più spesso che gli animali compiono l’intero tragitto assetati e sofferenti per il calore e la disidratazione, subendo un’inutile tortura prima di finire trasformati in spiedini e cotolette spacciati con tutti i crismi della legge italiana come carne “di origine italiana” soltanto perché alla fine sono macellati qui.

I tassi di mortalità degli animali maltrattati in questo modo sono altissimi, molti muoiono a bordo del camion, schiacciati e calpestati dagli altri, un contatto che è veicolo di diffusione di malattie. Bastano solo 30 o 40 minuti e i livelli di salmonella nelle feci degli animali stipati su un camion passano dal 18% al 46% e il numero di animali infetti all’arrivo al mattatoio passa dal 6% all’89%. Questo crudele trasporto incide inoltre sulla qualità delle carni.

A causa del consumo di glicogeno nei muscoli causato dalla spossatezza degli animali in viaggio, i veterinari addetti ai controlli rilevano quantità sempre maggiori della cosiddetta carne DFD (Dark, Firm, Dry, cioè scura, rigida e secca) ma anche della cosiddetta carne PSE (Pale, Soft, Exudative, cioè pallida, molle, essudativa). Milioni di agnelli, cavalli, maiali e vitelli soffrono in modo inutile e assurdo soltanto per essere macellati all’arrivo anziché alla partenza. Non è meglio una bella, sana, pasta e fagioli? Perciò per quanto riguarda gli agnelli vi invito ad accertarvi della provenienza delle carni, che siano sicuramente allevate (oltre che macellate) in Italia.

 

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E veniamo al vino. Che sia il migliore, almeno a Pasqua! Ma qualcosa mi gela l’entusiasmo. Come tanti altri lettori del mio amico e collega Carlo Macchi di Winesurf.it ho letto uno dei suoi interessanti articoli che tornano periodicamente a riproporre il tema delle sostanze usate nel vino e che dovrebbero essere riportate in etichetta, ma non lo sono.

Queste sono alcune delle sostanze autorizzate dalla Comunità Europea per produrre vino. Hanno funzioni e scopi diversi tra loro. Leggetele per favore. Acido tartarico, alginato di calcio, alginato di potassio, caseina, silicato di alluminio, gomma arabica, caolino, bentonite, bicarbonato di potassio, carbonato di calcio, batteri lattici, solfato di rame, acido meta-tartarico, tannini, enzimi, acido ascorbico, acido citrico. Adesso diteci. Conoscete qualcuna di queste sostanze? Al momento che qualcuna di queste sostanze venisse usata per produrre vino, vorreste che fosse riportata in etichetta? Volete inserire un commento?

Non è che non lo sapessi, ma vedersele spiattellate lì tutte in fila come in una ricetta del farmacista mi ha cambiato non poco l’umore. Per non parlare poi dei concentratori, dell’osmosi inversa, dei trucioli di legno, dei super-filtri, dei kit di aromi sintetici, eccetera eccetera. Ma che razza di vino stiamo mai bevendo… e che vino berremo?

Amo questo nettare di Bacco quand’è fatto nel rispetto della natura e mi ritrovo invece spesso qualcosa di seducente, ma plasmato dalla chimica e dai macchinari ultratecnologici. Siamo proprio sicuri che per fare un vino di ottima qualità si debbano sopportare tutte quelle pratiche che oggi magari chiamiamo progresso e che domani potrebbero invece rivelarsi retrograde, obsolete o addirittura dannose?

Seguo già da vicino i vini degli incroci ibridi della vitis vinifera sativa con quelli della vitis vinifera silvestris, che in Canada, Polonia, Germania, Gran Bretagna, Svezia e Repubblica Ceca si stanno coltivando senza usare sostanze chimiche in vigneto, in quanto sono naturalmente resistenti alle malattie. Si chiamano vitigni PIWI, dal tedesco “pilzwiderstandfähige” abbreviato per semplificare e sono ottenuti da incroci con varietà provenienti dall’America settentrionale e dall’Asia che resistono alle malattie fungine senza l’impiego di anticrittogamici e sono coltivati praticando la viticoltura tradizionale nel pieno rispetto dell’ambiente, cioè un passo avanti verso una viticoltura naturale.

 

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L’adeguamento alle regole della coltivazione biologica della vite nei Paesi dell’Europa settentrionale, centrale e orientale è molto più facile che nei Paesi tipicamente vinicoli affacciati sul Mediterraneo, dove si coltivano varietà della vitis vinifera sativa ormai fortemente degenerate e particolarmente esposte alle malattie fungine, tanto che si devono usare prodotti della chimica di sintesi nelle vigne, ricorrendo a spruzzarle in condizioni pericolose per i lavoratori stessi e per i residenti nei pressi. In Italia invece è ancora una battaglia, specialmente contro quei pregiudizi che sono diventati regolamenti e leggi a difesa dei vini cosiddetti industriali, ma dal 2004 questi vitigni resistenti sono però già coltivati e attualmente quasi una quarantina di questi è già presente nel Registro Italiano delle varietà di vite autorizzate alla coltivazione che possono produrre dei vini commerciabili.

Si diffondono per esempio tramite il CIVIT Consorzio Innovazione Vite del Trentino, l’Università degli Studi di Udine con l’Istituto di Genomica Applicata IGA insieme ai Vivai Cooperativi Rauscedo VCR, il Vitis Rauscedo con Rebschule Freytag, ma chi fosse interessato può trovare maggiori informazioni sul sito https://piwi-international.de/it/italia/ che viene aggiornato regolarmente.

Nell’Italia settentrionale sono già una sessantina le aziende che li coltivano e ne fanno dei vini, sebbene siano ancora solo dei suggerimenti per gli esperti nel mondo del vino, anche se gli appassionati di vino stanno scoprendo sempre più questi “nuovi vini”.

Bisognerà dunque cominciare a fare riferimento a questo sito oltre che ai siti dedicati al vino biologico e biodinamico, per coniugare naturalità e scientificità alle proprie conoscenze e poter bere sempre meglio anche a Pasqua e pasquetta

 

Mario Crosta

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