I giganti: in memoria di Michele Moio fu Luigi

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Questo pezzo è dedicato dal cuore al papà del prof. Luigi Moio, docente di scienze e tecnologie alimentari dall’Università degli Studi di Napoli Federico II nonché presidente del comitato scientifico e tecnico dell’Organizzazione Internazionale della Vigna e del Vino e titolare della cantina Quintodecimo a Mirabella Eclano, in piena Irpinia, nel cuore della zona del Taurasi.

Si tratta della riproposizione odierna di un articolo pubblicato il 20 febbraio 2004 su Acquabuona.it. L’amico napoletano Fabio Cimmino dell’omonima ditta tessile, un blogger che era andato a trovarlo per descrivere i suoi vini, lo aveva visto stampato sulla parete dello studio di Michele Moio che, leggendolo allora, ne era rimasto entusiasta. Michele Moio purtroppo è venuto a mancare a 91 anni il 29 gennaio del 2020 e poiché mancano solo tre giorni a quella data mi prende già la nostalgia di questo gigante, sì, un vero gigante, un mito indimenticabile dell’enologia campana, non posso fare a meno di provare a ricordarlo anche a chi non lo ha conosciuto.

C’è chi si sente un nano sulle spalle dei giganti e chi invece pensa di abbattere quei giganti e di sostituirsi a loro, e c’è chi, invece, fa sua la celebre frase del filosofo Bernardo di Chartres che agli inizi del 1100 sosteneva «Siamo come nani sulle spalle di giganti, così che possiamo vedere più cose di loro e più lontane, non certo per l’altezza del nostro corpo, ma perché siamo sollevati e portati in alto dalla statura dei giganti». Ma vi lascio al testo, certo che da lassù, dal paradiso dei giusti, Michele mi sorrida.

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Bere un vino di qualche decina d’anni che sia meraviglioso è sempre un vero miracolo. Non basta farli bene e a regola d’arte, come solo dei grandi maestri sono capaci. Ci vogliono delle uve eccezionali, dei terreni in perfetta simbiosi con i vitigni più adatti, delle annate particolarmente riuscite, un grande amore per la custodia delle bottiglie e tanta, tanta pazienza. Non è un caso che i vini veramente più longevi si trovino più frequentemente dai produttori con le maggiori risorse in quanto a vigne, uomini, cantine ed esperienza, quelli che sono considerati la vera élite della produzione di alta qualità in campo mondiale. Siamo certamente più fortunati con bottiglie che sono rimaste in santa pace al buio e al fresco nelle antiche cantine di queste case vinicole, ma anche la fortuna ha un costo e non soltanto un prezzo. Per delle gioie particolari, delle emozioni irripetibili e delle sensazioni da favola, ci sono senza dubbio gli eccelsi vini langaroli, valsesiani, valtellinesi, montalcinesi, chiantigiani e maremmani. Risparmio volentieri di suggerire dei nomi a chi ama questi vini leggendari, perché sono sicuramente conosciuti in tutto il mondo e vengono fatti oggetto perfino di collezione, non c’è quindi bisogno di finire qui l’articolo con un elenco dei più applauditi capolavori dell’enologia.

Però capita d’imbattersi anche in vini straordinari che in altre zone e in particolari annate, che spesso non sono nemmeno quelle più segnalate, hanno raccolto in sé tutto il meglio possibile delle condizioni pedoclimatiche, agronomiche ed enologiche e (perché no?) tanta fortuna. C’è un buon Dio anche per quei vignaioli che non sono tanto salottieri, quelli che non hanno tempo da dedicare alla ribalta, persone che magari non hanno un’eloquenza pari alla loro indubbia capacità di soffrire, gli umili che sanno ascoltare la vite e non aspettano la motozappa per farne respirare le radici. Oddio, non si creda che fare il vino buono sia un atto di eroismo, ma neanche una schiavitù, non c’è bisogno di passare la vita dall’alba al tramonto sempre in vigna, anche perché chi è capace di tanto amore in genere lo sa ben distribuire anche in famiglia, con gli amici e in paese. A volte capita che i grandi sacrifici e l’intelligenza creativa abbiano un corrispondente nella buona sorte e ne nascano dei vini che si riveleranno con gli anni non soltanto un passo avanti agli altri che si sono sempre fatti, ma in splendida evoluzione, come un evento miracoloso. Bottiglie di vino che hanno lasciato la cantina come tutte le altre e che si sono sparse un po’ per tutto il mondo, manco si sa dove, finché per puro caso non vengono aperte e finiscono per lasciare letteralmente stupefatti chi ne beve, anche dopo molto tempo.

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Mi è capitato con il Barbera d’Alba del 1926 di Enrico Serafino di Canale d’Alba, alcune bottiglie acquistate dal nonno, passate in parte a mio padre, un paio delle quali aperte cinquant’anni dopo, o con il Barbaresco Riserva del 1952 della stessa casa, favoloso trent’anni più tardi. Un altro esempio di vino straordinariamente longevo è stato per me lo Spanna dei cinque castelli 1947 di Antonio Vallana di Maggiora, trovato nel fango a Vallemosso durante l’alluvione, nonché lo stesso vino dell’annata 1964, comprato con le prime paghette quand’ero adolescente. Poi, si sa, i casi della vita portano anche a scoprire dei vini eccezionali, come il Gattinara 1971 dell’Azienda Agricola Le Colline e il Ghemme 1974 di Giuseppe Imazio (”al murétu”), solo per ricordarne alcuni, ma di cantine passate di mano o che non ci sono più. Viene un senso di profonda tristezza quando si può finalmente disporre di una cifra da investire in vini destinati a prolungato invecchiamento, più per la gioia di figli e nipoti che per la nostra (destinati magari a fare la stessa fine di Mosè con la terra promessa, cioè… nisba!) e si scopre però che nel frattempo il mondo si è capovolto e dove c’era l’erba verde ormai c’è una città, come cantavamo una volta insieme all’Adriano nazionale.

Un’iniezione di emozionante radiosità viene invece dal caso contrario, quando un vino che si credeva già lontano nei ricordi e irripetibile ti si ripropone davanti al naso in tutta freschezza, vispo e pimpante nella sua beata incoscienza di discendere da un mito che ti ha sconvolto l’anima. Il Ristorante Del Sole di Marietti Orfeo è ancora lì, nel cuore stesso del centro storico di Perugia, nella viuzza della Rupe, angolo con via Oberdan. Quanti ricordi… e che vista! Sono soltanto due sale sotto le volte medioevali dell’antico palazzo dello Studium, che poggiano su un tratto a vista della cinta muraria etrusca. Dal suo giardino, mentre si possono gustare le più genuine specialità della gastronomia perugina (anche d’inverno, ma grazie a delle luminose vetrate), si gode un ampio e pittoresco panorama della valle umbra, con Torgiano ed Assisi. La sua cantinetta ha sempre riservato molte piacevoli sorprese agli intenditori, la scala è comodissima e invita alla visita. Fu qui che diversi anni fa, durante due settimane di ferie in una regione allora sconosciuta da visitare per intero, decisi di tornare ben due volte nello stesso posto per mangiare e bere la stessa cosa: anatra in porchetta (pepe, rosmarino ecc.) e il rosso Gaurano Castel Monte Petrino 1971 dell’azienda vinicola Michele Moio fu Luigi di Mondragone in provincia di Caserta.

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I vini del nostro meridione fino a quel momento mi erano quasi sconosciuti, con qualche eccezione per quelli salentini, ma questo qui era come se lo avessi sempre sognato, come se lo avessi sempre bevuto per duemila anni, un gran bel corpo ma fruttato, rigoglioso, sensuale, avvolgente.

Un grado alcoolico che non scherzava affatto, intorno al 14,5%, eppure meraviglioso anche in pieno agosto e in una splendida giornata di sole con quella ruspante pietanza e un grandioso spettacolo naturale davanti agli occhi. Di grande profondità storica, sia il paesaggio che il vino, infatti, sull’onda delle piacevolissime sensazioni che la beva ampiamente procurava, lo sguardo scandagliava tutta la bottiglia e non si lasciava sfuggire neanche un particolare, mentre la fantasia volava a Virgilio, Orazio e Plinio che di quei vini ne dovevano pure aver bevuto bene per osannare così il nome del Falerno, il vino più ambito dell’antichità. L’Appia antica e la Domiziana che s’incrociavano alla foce del Volturno, tra il litorale tirrenico e i monti Petrino, Massico, Pizzuto e Cicoli sono state le prime strade del vino. La costa bassa, con sabbia bianca e finissima, larga alcune centinaia di metri si estende ininterrottamente per oltre 50 km da Scauri fino a Cuma. Il territorio è essenzialmente pianeggiante, caratterizzato da colline calcaree e attualmente non è attraversato da fiumi ma intersecato da vari canali, come Agnena, Savone e Fiumarella che sboccano in mare. Il clima è mite per il ciclo dell’uva, data la posizione costiera. La temperatura infatti è una delle più costanti; quella estiva è mitigata dalle brezze marine e quella invernale è quasi tiepida, la media non scende mai sotto lo zero e il gelo e la neve rappresentano delle rare eccezioni. Le piogge non sono scarse ma molto discontinue, sotto forma di acquazzoni brevi e violenti. I venti predominanti provengono da Sud/Ovest nei mesi estivi, da Ovest in primavera e da Nord/Est in inverno e di solito sono moderati.

Mondragone, 28.000 abitanti d’inverno e almeno 40.000 d’estate, è proprio al centro di una variegata situazione ambientale: da un lato il litorale e la pineta, dall’altro la campagna ricca di ortaggi, ulivi e viti, con un’oasi naturalistica del WWF ai piedi del Massico e dove, nella piana dei Mazzoni, un tempo terreno completamente paludoso, è possibile assaporare gustosi piatti a base di rane, anguille e alose del Volturno, ma c’è un’altra squisitezza: la mozzarella di bufala. In città tutto testimonia dell’antico passato: portali, colonne e frammenti scultorei sparsi lungo il centro storico dominato dal Monte Petrino, sulla cui vetta sorgono i resti della rocca e le opere di difesa erette probabilmente dai profughi dell’antica città di Sinuessa, oggi sommersa. Agli inizi del secolo scorso, un ramo della famiglia Moio si stabilì a Mondragone, dando origine all’attività vinicola. A Michele Moio si deve sin dal dopoguerra il merito di aver intuito che il vino rosso ottenuto dalle uve di primitivo, vitigno pugliese importato qui dal barone Falco ai primi del ’900, poteva degnamente essere considerato, dopo tanti secoli di trasformazioni tecniche, climatiche, genetiche e di gusto, la versione moderna del vino tanto caro agli antichi romani.

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Tra i fantastici vini prodotti dai Moio con il primitivo c’erano (all’epoca in cui avevo scritto questo articolo) appunto il Falerno DOC, in particolare lo stupendo e sorprendente Falerno Maiatico DOC, il Moio 57 dedicato alla favolosa vendemmia di Mondragone del 1957 e il Gaurano, da una selezione particolarmente accurata di uve primitivo leggermente surmature, provenienti dai migliori vigneti di Mondragone. Quel Gaurano faceva una macerazione di circa 25 giorni a temperatura controllata e il vino che se ne ricava veniva invecchiato per 18 mesi in tradizionali botti di rovere di Slavonia. Aveva un colore rosso rubino scuro, un intenso e delicato bouquet di frutti a bacca rossa con un ritorno aromatico persistente, con il tempo dal calice emergono le confetture e una suadente nota speziata, possiede una buona struttura con una netta sensazione di potenza e un sapore morbido, vellutato, armonico ed equilibrato. Non portava già più il nome di Castel Monte Petrino, ma in compenso è diventato un vino emblematico, perché si è fatto finalmente conoscere e piace davvero a tutti, sia a quelli che ne apprezzano le doti fruttate (per cui è meglio coglierlo nei suoi primi cinque, sette anni di vita) sia a quelli che si inebriano della ricca complessità, che emerge dopo otto, dieci anni.

Mi ha scioccato invece la grande resistenza al logorio del tempo, che non ne migliora le qualità organolettiche ma ne sublima gli aromi e ne affina il gusto in confettura, forse perché è figlio della sabbia e ama il mare, al punto che le radici di alcune vecchie viti sono state trovate sul litorale perfino a più di cento metri di distanza dal vigneto, che sono veramente tanti. Sapevo che il nonno Luigi era un grandissimo pioniere, ma non posso fare altro che complimentarmi con Michele, che considero uno dei miei miti con Giorgio Grai e i fratelli Triacca, cioè con il padre dal polso di acciaio del prof. Luigi Moio che è più famoso enologo campano (buon vino fa buon sangue e buon sangue non mente) e fa il docente di enologia all’Università di Napoli, nonché con tutta l’azienda Moio per quel grande amore e rispetto per la tradizione che si sentono in questo vino e che ne fanno certamente non un’azzeccata operazione commerciale, forse non una leggenda, ma sicuramente un pegno d’amore per questa terra e per la gente del profondo Sud. ”Honni soit qui mal y pense”.

Di Mario Crosta

 

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