I giovedì di QB: la vera storia del Vin brulè
- Fabiana Romanutti
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La vera storia del vin brulè, Glühwein in tedesco, vin Chaud in francese, mulled wine in inglese
Ve la raccontiamo riprendendo l’interessante articolo di Martina Tommasi, storica e appassionata di cultura alimentare, pubblicato su qbquantobasta qualche tempo fa e dove sono preliminarmente sottolineate le valenze simboliche connesse alla scoperta che l’alcol si potesse bruciare.
Non era più il cibo cotto sul fuoco a essere mangiato, ma il fuoco stesso.
L’antenato
Gli antichi Romani amavano sorseggiare nei loro simposi il Conditum Paradoxum, vino passito mescolato con miele, pepe e noccioli di datteri polverizzati, attribuendogli proprietà medicamentose e afrodisiache. Un antenato del vin brulè.
L’usanza delle bevande alcoliche calde è intrinsecamente legata a momenti di condivisione, spiega Tommasi. Basti pensare al Glögg, tradizione finnico-svedese che vede riuniti amici e parenti per assaporare assieme questa bevanda molto simile al vin brulé; o al Grog, inventato nel Settecento dopo la scoperta della Giamaica: rum caldo con aggiunta di acqua e succo di lime bevuto insieme dalla ciurma delle navi (più che di vin brulè in questi casi ci si ritrova più vicini al punch).
“Le testimonianze antiche circa l’uso di scaldare l’alcol sono rare, ma il fatto che sfuggano alla documentazione ufficiale non vuol dire che la pratica non fosse diffusa”
Esempi di bevande alcoliche calde li troviamo dal Canada alla Colombia, dalla Cina alla Turchia; alcune prevedono il flambage, sì la tecnica delle Crêpes Suzette.
“Ogni popolo fin da tempi remoti ha cercato il conforto del fuoco, il cui utilizzo diretto ha profondi significati simbolici. Era credenza diffusa che il cibo cotto direttamente sul fuoco aumentasse la forza e la virilità di chi lo ingeriva. Pertanto la scoperta che l’alcol si potesse bruciare ebbe una valenza molto forte: non è più il cibo cotto sul fuoco a essere mangiato, ma il fuoco stesso. Quel fuoco rubato da Prometeo agli dei per farne dono agli uomini.
Ancora oggi l’atto di raccogliersi attorno al fuoco (per cucinare o meno) è un gesto comunitario, un simbolo di unione del gruppo di fronte alla forza degli elementi. Non è più la Natura a controllare l’uomo, ma l’uomo a dominarla, accendendo, spegnendo e talvolta ‘mangiando’ il fuoco”.
Come si prepara
Il vin brulé si prepara riscaldando vino rosso o vino bianco, aggiungendo zucchero, cannella e chiodi di garofano. In alcuni casi vi si aggiungono scorze di limone, anice stellato, qualche fettina di mela e/o qualche spicchio di mandarino. Spezie e zuccheri dovrebbero essere aggiunti solo in fase di raffreddamento della bevanda.
La grolla
Un esempio emblematico è il Caffè alla valdostana. Icona della condivisione alcolica hot, scrive sempre Tommasi, si beve nella Grolla, recipiente di legno dotato di 4, 6 o 8 beccucci dai quali i convitati bevono a turno, facendo il giro del tavolo, caffè bollente abbondantemente corretto con la grappa. Il divertimento sta nel tappare i beccucci laterali in modo da non sbrodolarsi, ma bisogna stare attenti a non scottarsi con il liquido appena flambato.
Il bisò. Il bisò è il vin brulé in versione romagnola, preparato con Sangiovese. Il nome forse deriva dal tedesco Bischoff, “vescovo” ma anche il “vino rosso caldo” (dal colore che richiama l’abito vescovile).
Friulana di nascita, triestina di adozione. Quanto basta per conoscere da vicino la realtà di una regione dal nome doppio, Friuli e Venezia Giulia. Di un’età tale da poter considerare la cucina della memoria come la cucina concreta della sua infanzia, ma curiosa quanto basta per lasciarsi affascinare da tutte le nuove proposte gourmettare. Studi di
filosofia e di storia l’hanno spinta all’approfondimento e della divulgazione. Lettrice accanita quanto basta da scoprire nei libri la seduzione di piatti e ricette. Infine ha deciso di fare un giornale che racconti quello che a lei piacerebbe leggere. Così è nato q.b. Quanto basta, appunto.