Il Barbaresco dell’indimenticabile don Giuseppe Cogno, parroco di Neive
- Mario Crosta
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Il suo Barbaresco non cercatelo nelle classifiche dei vini osannati dalle guide, perché non lo troverete.
E non troverete più neanche quel grandissimo vino. È difficile che su questa terra qualcuno dia dei premi o dei riconoscimenti a un prete, anche se poi si usano le antiche chiese, costruite appunto dai preti, per ricavarne delle pittoresche enoteche, proprio come quella regionale del Barbaresco. Nella storia dei successi di questo ottimo vino delle Langhe c’è anche l’opera di don Giuseppe Cogno, un vero pastore di anime col bernoccolo del vignaiolo, che nel 1961 fondò la Cantina del Parroco di Neive. Nato nel 1923 a Novello, vicino a Barolo, quando uscì dal seminario di Alba fu vicedirettore del Convitto Civico, poi divenne curato a Diano d’Alba e in seguito assistente dell’Azione Cattolica e consulente della Coldiretti.
Negli anni ‘60 fu nominato parroco della parrocchia dei SS. Pietro e Paolo a Neive. Col tenace sangue langarolo che aveva, appena arrivato si interessò subito per riuscire a ottenere la scuola media in paese (anni dopo inaugurò anche la scuola di arte bianca, mettendo a disposizione i locali della parrocchia) e per convincere i giovani a restare a lavorare la terra, invece di emigrare verso i miraggi della grande città, non esitò a utilizzare le vigne della parrocchia, producendo dei vini di alta qualità.
Buon sacerdote, ma anche dinamico imprenditore, diede lavoro pian piano a sempre più persone, facendo della sua bella azienda un’occasione di sviluppo per la viticoltura di tutta la zona e rendendola famosa in tutto il mondo per il suo vino, circa 90.000 bottiglie l’anno tra Barbaresco, Dolcetto e Barbera. È morto il 13 gennaio del 2000, circondato dalla stima e dal rispetto dei neivesi per la sua gran voglia di fare e la sua concretezza, che hanno reso Neive uno dei luoghi di elezione del Barbaresco, ma vivevo già in Polonia, non avevo ancora un computer né Internet e nessuno dei portali del vino, che allora muovevano i primi passi, ne aveva dato notizia.
Quando ho ritrovato una sua bottiglia del 1978 giù in cantina che non mi ricordavo nemmeno più di avere (mannaggia a chi non si fa un registro di cantina, vero?) mi sono passati davanti agli occhi gli anni più belli della gioventù, quando avevo tanta voglia di girare per conoscere il mondo. Neive, su un bel colle al confine tra le Langhe e il Monferrato, ha poco più di tremila abitanti e circa 248 ettari coltivati a nebbiolo delle varietà e delle vigne ammesse alla DOCG del Barbaresco. Il nome del paese deriva da gens Nævia, una famiglia gentilizia dell’antica Roma che qui s’insediò intorno al primo secolo avanti Cristo. Il suo centro storico è suggestivo, diviso in Ripasorita, la parte esposta al sole del pomeriggio, e Ripafredda, quella esposta al sole del mattino, ed è ancora evidente l’originaria struttura ad anelli concentrici intorno al castello, costruito verso l’anno mille. Un bel posto per ristorarsi nel profumo della campagna dopo una settimana di lavoro in fabbrica, dove mi facevo portare dalla mia impagabile 500 (una delle utilitarie Fiat progettate dall’ingegner Dante Giacosa, originario proprio di Neive) già trent’anni fa, quando andavo per Langa alla ricerca di oasi di vera pace e tranquillità, fermandomi nei vari paesi ad assaggiare le specialità della cucina locale e i mitici vini, i cui prezzi, allora, erano davvero a portata di tasca.
Ricordo con un po’ di nostalgia la Locanda del Centro a Gallo d’Alba, sotto Grinzane Cavour, oggi demolita, e La Stella d’Oro ad Alba (cioè dal ”vigin mudest”), due vere favole di altri tempi, da galantuomini. Ma anche oggi si possono gustare la lingua in salsa langarola, i tajarin ai funghi, lo stracotto d’asino, il brasato al Barbaresco o al Barolo e soprattutto la lepre (o il coniglio) in civet, cioè in salmì: carne marinata a pezzi da 24 a 36 ore con spezie e verdure in abbondante e ottimo vino Barbera o Dolcetto o Nebbiolo e, una volta cotta, servita in compagnia di altre bottiglie dello stesso tipo di vino usato per la marinata.
Di Neive è favoloso il pane con una delle due specialità appetitose nel cui impasto qui mettono il Barbaresco: la salsiccia e il salame al Barbaresco, con stagionatura da un mese e mezzo a un anno per i salami, a seconda delle dimensioni. Con quello che costa il Barbaresco oggi, potreste pensare quanto durerà ancora questa tradizione? Beh… quando si hanno pochi soldi, è proprio nella tradizione che si va a cercare, e chi cerca trova, la forza di rinnovarsi e riproporsi, armandosi di coraggio e di olio di gomito.
Il Barbaresco di don Giuseppe, per esempio, è nato praticamente insieme alla prima DOC di questo vino, che oggi è DOCG e comprende poco 662 ettari vitati in quattro comuni: Barbaresco, Neive, Treiso e la frazione San Rocco di Seno d’Elvio del comune di Alba per una produzione media che si aggira più o meno, a seconda dell’annata, sui 4 milioni di bottiglie. Ma non dovendo niente a nessuno, il suo è sempre stato un vino piacevole da bere e non un oggetto di culto o da collezione.
Non si è mai misurato con quei giganti che hanno fatto e rifatto la storia del Barbaresco sulle pagine delle riviste, ma è sempre vissuto nella piena e dignitosa umiltà delle sue poche migliaia di bottiglie l’anno, tratte con pazienza dai grappoli del vigneto Gallina, un terreno biancheggiante e non molto resistente, che costituisce uno dei migliori cru storici su una collina di marne grigio-bluastre e sabbie straterellate. Un gran bel vino di campagna, terroso, avvolgente e caldo, se bevuto giovane e sul posto con quei piatti rustici che le nonne sanno fare alla grande, senza andare a cercare la luna nel pozzo. Un vino dagli attributi al posto giusto, insomma. Infatti questo del ‘78, pur soffrendo il trasporto prima a Milano, poi in nave in Sardegna e infine in auto a Cracovia, quando l’ho riassaggiato nel 2003 a 25 anni suonati era diventato ricco, raffinato e signorile.
Stappata la bottiglia senza tante cerimonie, ma con un po’ di trepidazione, mi ero trovato di fronte a un Barbaresco di ottima fattura e di gran pregio, forse non particolarmente complesso, ma con una forza espressiva molto piacevole. Di colore rosso granato di piena consistenza con sfumature di colore rubino illuminate dai bagliori arancioni del buon invecchiamento, questo vino mi aveva regalato un’intensità di profumi da andare in trance, forse aiutato dai grandi calici di Riedle che vent’anni fa non aveva potuto certamente conoscere. Sono emersi subito gli aromi di polpa fruttata, quasi matura, come mora, prugna e ciliegia e poi quelli lievemente floreali di viola mammola e rosa canina, per terminare con toni speziati di cannella, pepe e tabacco.
In bocca era caldo come da giovane, ma la sua robustezza e la sua vigoria si erano ingentilite con una perfetta maturazione e il vino era diventato austero e vellutato. Affascinante la struttura alcoolica, che era pronunciata, ma che si era affinata in un equilibrio stupefacente, dove affioravano toni di liquirizia che contribuivano a mantenere il finale lungo e persistente. La sensazione che lasciava era molto piacevole, per un vino di ben venticinque anni solidamente portati e ancora altrettanti probabilmente in serbo. Sicuramente un gran vino da commentare, con i complimenti, telefonando al produttore, come sarebbe sempre il caso di fare quando si viene… miracolati.
E qui la sorpresa. Non era la prima volta che cercavo il numero di telefono di una cantina per congratularmi con loro per il vino fatto dai nonni o dai padri e che purtroppo scoprivo che la vita ci riserva anche la morte poiché nel frattempo erano cambiate tante cose e magari la cantina non c’è più o non è più la stessa. Di botto, ci si accorge di essere usciti da una fiaba e di vivere in un altro mondo, quello che va dove sanno i vecchi, ma non dove vogliono i giovani. Suvvia, la commozione non lasci mai spazio alla tristezza, ma si traduca in speranza, come insegna la vite, che si moltiplica nei tralci fin dalla notte dei tempi e sopravvive alle persone e agli eventi! Don Cogno sta su una nuvoletta del paradiso e oggi, in quel di Neive, è l’azienda San Michele che è la diretta erede e continuatrice della Cantina del Parroco di Neive e dei suoi ideali, per volere dello stesso defunto parroco e arciprete che l’aveva fondata nel 1973 con altri tre viticoltori.
La conduzione aziendale adesso è opera dell’attuale presidente Franco Cavallo, dei soci Lessio Renato e dei coniugi Nebiolo Mauro e Franca per i vigneti con l’enotecnico Claudio Cavallo Claudio per la cantina e con il dott. Achille Cogno, fratello del defunto parroco, per i rapporti con la clientela. In tutto sono circa 6 ettari nei vigneti Gallina, Gaja, Cottà e Basarin. Oltre a Barbera d’Alba, Dolcetto, Moscato e altri vini, in totale da 60 a 70.000 bottiglie l’anno tra cui 15.000 circa di Barbaresco, che ha l’etichetta simile a quella dei vini Parroco di Neive, ma con la nuova intestazione di Cantina Parroco.
Con i ricordi e le emozioni che mi aveva suscitato questo Barbaresco vigneto Gallina 1978, forse una telefonata non sarebbe stata proprio l’ideale, anche se l’ho fatta lo stesso. Sarebbe stata meglio una bella rimpatriata per rivedere da vecchio quegli stessi posti che mi avevano affascinato da ragazzo. Come dicono gli Alpini, con il vino si torna sbarbati! Ma la Polonia è lontana e se torno ad abitare in Italia ho già scelto un posto in collina a meno di mezz’ora dalla costa maremmana. Però posso suggerirla a voi. Laggiù sono aperti alle visite come si conviene alle cantine per bene e oggi a Neive e nei pressi ci sono degli incantevoli posticini per pernottare a buon prezzo, si fa presto a rinfrescare i sogni e a dimenticare l’auto sotto le piante per godere dei sontuosi giardini disegnati dal Borgese per il conte di Castelborgo e per fare quattro passi al campanile romanico sul fiume Tinella o fra le placide vigne che seguono il degradare della tondeggiante collina su cui si aprono le viuzze di quel paese fin troppo tranquillo, perfino durante la festa del carlevé stravej.
Perciò dedico questo articolo all’amico Maciek Mizerka che ha già seguito i miei consigli, c’è stato prima della pandemia in auto dalla Polonia e mi ha omaggiato di una bella fotografia con il 94-enne enologo Franco Cavallo, soddisfatto del vino che gli avevo suggerito e della gita che gli avevo proposto.
Pensate anche a me se mettete una candela nella chiesa che fu di don Cogno, chissà mai che il cielo ci ascolti e che ce ne mandi più spesso di questi sacerdoti con la passione per le terre da vino, di poche parole e tanti fatti, che ce n’è davvero un gran bisogno nell’odierno mondo vinicolo ormai viziato e scombussolato da troppe chiacchiere. Come lui, come don Fiorino Marengo, il fondatore della Cantina Produttori del Barbaresco, come don Giacomo Cauda di Castagnole Monferrato. Ma anche una capatina alla vineria Bottega dei Quattro Vini presso il palazzo comunale alla ricerca di vini rari per trovare un’altra vecchia bottiglia, magari dello stesso anno di nascita di mio figlio, per fargliene dono quando compirà diciott’anni o quando si sposa, come si usa fare da generazioni in famiglia con i vini generosi e sinceri. E d’ora in avanti terrò un registro di tutte le bottiglie che metto in cantina e, anziché conservarle a vanvera e trovarle per caso con i vini che a volte invano attendono di essere colti nel momento giusto, me le berrò con maggiore criterio, conservandone invece le etichette!
Mario Crosta
Di formazione tecnica industriale è stato professionalmente impegnato fin dal 1980 nell’assicurazione della Qualità in diverse aziende del settore gomma-plastica in Italia e in alcuni cantieri di costruzione d’impianti nel settore energetico in Polonia, dove ha promosso la cultura del vino attraverso alcune riviste specialistiche polacche come Rynki Alkoholowe e alcuni portali specializzati come collegiumvini.pl, vinisfera.pl, winnica.golesz.pl, podkarpackiewinnice.pl e altri. Ha collaborato ad alcune riviste web enogastronomiche come enotime.it, winereport.com, acquabuona.it e oggi scrive per lavinium.it, nonché per alcuni blog. Un fico d’India dal caratteraccio spinoso e dal cuore dolce, ma enostrippato come pochi.