Il futuro della vite e del vino dipende dagli ibridi resistenti alle malattie fungine?
- Rolando Marcodini
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”L’un contro l’altro armati…” recitavano i versi di scolastica memoria, allorché due eserciti si schieravano in campo pronti per la battaglia, e proprio allo stesso modo si comportano a volte i pensieri nella testa, in preda a violenti scontri, tanto che pare perfino di sentire i clamori di queste battaglie.
Lo stesso capita nel mondo del vino quando si affronta il tema dell’alternativa all’uso dei fitofarmaci nella lotta contro le malattie e i parassiti della vite e si propone il ricorso agli organismi geneticamente modificati (OGM) oppure alla piantumazione di vigneti con gli ibridi derivati da incroci tra le varietà catalogate e consentite dall’Unione Europea con quelle delle viti selvatiche.
È da trent’anni che sto osservando da molto vicino le problematiche della vitivinicoltura nei Paesi dell’Europa orientale spingendomi sempre più a Nord e devo ammettere che l’incontro con i grandi freddi e con altre malattie e parassiti tipici della vegetazione continentale mi pone spesso in condizioni ugualmente burrascose di riflessione. Mi riferisco proprio all’uso locale di piantare ibridi derivati da varietà della vitis vinifera e delle sue sottospecie incrociate con le viti selvatiche allo scopo appunto di produrre ceppi resistenti al lungo periodo di gelo invernale e agli attacchi dei parassiti e dei funghi nel breve periodo vegetativo che serve per poter portare a una giusta maturazione gli acini da pigiare.
Le viti selvatiche allo studio e alla sperimentazione sono tante
Le principali sono: riparia, rupestris, berlandieri e gli incroci fra di loro (x instabilis, x kooberi, x ruggerii, ma anche labrusca, amurensis, coignetiae, mustangensis, tetrastigma, parthenocissus, cyphostemma, eccetera.
Roman Myśliwiec che dal Canada, dagli USA, dalla Russia, dall’Ucraina, dalla Mongolia, dalla Corea e da altri territori dominati dai grandi freddi ha importato in Polonia e sperimentato ben 101 di questi ibridi (di cui mi ha fornito anche ben due volumi di documentazione), mi diceva che nelle loro nazioni d’origine le Università e i Comitati Scientifici enologici stanno studiando e sperimentando da decenni in tutta normalità queste vere e proprie alternative naturali al paventato ricorso agli organismi geneticamente vitigni (OGM) modificati in provetta.
Ultimamente si parla molto di una classe di vitigni definiti ”vitigni resistenti”
Sono degli incroci sviluppati dal 1880 al 1935 in Francia allo scopo di combinare la dote caratteristica delle viti americane, cioè la resistenza alla fillossera e alle crittogame, alle qualità enologiche delle varietà europee. Queste varietà sono note come PIWI (Pilzwiderstandfähig, in tedesco, cioè resistente alle crittogame) e, dopo decenni di selezioni e sperimentazioni, questi incroci fanno parte ormai a tutti gli effetti della vitis vinifera in Germania, Austria e Svizzera.
In Italia la ricerca e in alcune aziende anche la produzione di vino sono in corso in Trentino, Alto Adige, Friuli, Venezia Giulia e alcuni vitigni resistenti sono stati già iscritti al Registro italiano, per esempio dal 2013 al 2015 sono stati bronner, cabernet carbon, cabernet cortis, gamaret, helios, muscaris, johanniter, prior, regent e solaris. Queste varietà sono ammesse alla vinificazione e al commercio, però sono utilizzabili soltanto per la produzione e la vendita di vini IGP, ma non DOC e DOCG.
Anche In Gran Bretagna, Irlanda e Germania alcuni di questi incroci sono tollerati (mentre fuori dall’Unione Europea sono addirittura tutti legalizzati) e perciò se ne può vendere normalmente il vino
Si prenda per esempio il caso del british wine da uve di seyval blanc. In Germania si sono perfino registrati anche gli incroci rondo, sibera, hibernal, phoenix, orion e merzling, oltre al regent, un passo scientifico necessario che ha consentito una licenza commerciale europea per i vini che da alcuni di questi sono derivati e quella nazionale per gli altri.
È vero che nelle aree mediterranee più calde non c’è quasi bisogno di incroci del genere, non se ne sente affatto la mancanza, anzi si lascia stoltamente estinguere la gran parte dei vitigni autoctoni quando non sono di richiamo commerciale, magari quelli più delicati e meno resistenti alle intemperie scatenate dal surriscaldamento in atto del clima terrestre.
Ma per la lotta ai parassiti e alle malattie che infestano le vigne in questi Paesi si usano poi delle sostanze chimiche sintetiche, dei farmaci comunque compresi in un elenco autorizzato, almeno nell’UE, mentre in continenti come l’Australia fanno quello che vogliono e invadono i mercati europei con vini che non mi sentirei tranquillo di degustare.
E proprio per ridurre l’impatto di questi farmaci, fin qui regolarmente usati senza che nessuno abbia protestato, nonostante il maggiore inquinamento dei terreni e le malattie provocate ai trattoristi che li spruzzano, da alcuni anni in certi Stati si sono stati introdotti, senza nemmeno le regole, degli OGM in vitivinicoltura, oltre che in tutto il resto delle coltivazioni a scopo alimentare, sollevando un enorme problema che non è soltanto di ordine morale o di salvaguardia della salute dei nostri figli e nipoti.
In Italia ancora no, ma l’inquinamento genetico busserà certamente alle nostre porte in modo legale o clandestino esattamente come fanno gli immigrati. Perfino sulla stampa del Vaticano sono comparsi ultimamente dei commenti che non pongono più delle barriere assolute a tutti gli OGM, certamente con dei distinguo e comunque a causa della drammatica necessità di aumentare la produzione di alimenti vegetali nei continenti schiacciati dalla fame, dove i bambini stanno inesorabilmente morendo (mentre da noi si interrano e si distruggono le arance passandole sotto i cingolati per mantenere i prezzi alti sul mercato internazionale…). La cosa comincia dunque a preoccupare non poco i consumatori che simpatizzano sempre più per le tecniche biologiche.
Questo è un campo in cui se si presta una mano ti prendono tutto il braccio
Avevo firmato perciò a suo tempo la petizione contraria alla diffusione indiscriminata degli OGM in vitivinicoltura con piena convinzione, proprio perché avevo intravisto nell’Europa centrale e soprattutto in quella orientale un’alternativa allo strapotere assoluto dei fitofarmaci e degli antiparassitari anche sul piano economico (mentre invece in quella occidentale le tecniche biologiche sono penalizzate su questo piano). Parlo appunto della piantumazione di vigne con gli incroci PIWI nei territori di quei vigneti che sono costretti a un periodo vegetativo più breve a causa degli inverni lunghissimi e straordinariamente rigidi.
Anche là sarebbe meglio produrre infatti dei vini da vitigni naturali anziché quelle nocive miscele di acqua, alcool e concentrati di frutta oppure di mosto rinvenuto in acqua e gasato artificialmente che invece sono e saranno ancora assurdamente permesse da alcune legislazioni di Paesi che fanno parte dell’UE e si trovano bellamente in vendita nei supermercati.
Mi domando quindi in base a quale ragionevole criterio sia ancora in vigore il divieto di usare anche quegli incroci per vinificare quei vini DOC che non specificano il nome del vitigno in etichetta ‒ chissà perché si fa però eccezione con il Seyval Blanc inglese; pensate che in Albione sappiano farsi rispettare meglio degli altri? ‒.
Quando le vigne europee sono state devastate dalla filossera all’inizio del secolo scorso, sono state le radici americane a salvare la situazione facendo da portainnesto per i vitigni sopravvissuti
Eppure da quelle stesse radici, lasciate sviluppare e fruttificare da sole, magari per ornare i giardini, alcuni hanno provato a trarre comunque dei vini, anche se in Italia esiste il divieto al commercio già dal 1931 (riconfermato dalla legge 4/11/1987 n° 460 di conversione del D.L. 7/9/1987 n° 370) che in seguito è stato vietato anche in tutta l’Unione europea con il Regolamento CE n. 1493/1999.
Il Fragolino, per esempio, una bevanda ferma o frizzante che è diffusa nel Nord Italia e nel Canton Ticino in Svizzera, ottenuta dalla vinificazione di uva della specie vitis labrusca (o dei suoi ibridi con la europea) ed è conosciuta come uva fragola, detta anche uva americana o Isabella o Raisin de Cassis.
Oppure il Clinto, detto anche Clintòn, Crinto o Grintón, ottenuto dalla vinificazione dell’uva di un ibrido produttore diretto (non innestato) che è ricavato da un incrocio tra la vitis labrusca e la vitis riparia. Rosso, concentrato, sporcabicchieri, dal profumo di selvatico, eppure un vino con un buon seguito di amatori, tanto che ancora se ne produce in purezza, o meglio ancora in uvaggio con altre uve, per dare un rosso dolce, piacevole e liquoroso, ma che rimane un ”vino” di straforo e solo per il consumo famigliare o per qualche occasione da festeggiare in privato con gli amici.
Ha infatti un grande successo comunque, molti intenditori lo ricercano e la vendita è alquanto estesa in tutta Europa, soprattutto nei paesi nordici, purché senza mai citare la parola ”vino” in etichetta e nelle documentazioni che piuttosto dovrebbero indicarlo come un generico prodotto della fermentazione alcolica.
Non c’è da stupirsi, quindi, se i più autorevoli opinionisti e sommelier dei Paesi dell’Europa centrale e orientale sponsorizzano sulle loro riviste come Świat Win, Magazyn Wino, Ferment, Rynki Alkoholowe e Vin a Vinnič (soltanto per citarne alcuni) i produttori locali che usano gli ibridi per fare i loro vini. Saranno pure degli eremiti, ma sono già accreditati da numerose visite condotte da esperti e intenditori nei loro vigneti estremi e nelle loro piccole cantine dove producono poche migliaia di bottiglie l’anno e dove si tocca con mano la professionalità e la passione per il vino naturale e non per quello artefatto o geneticamente inqualificabile. Eppure usano anche quegli incroci che da noi non sono ancora ammessi e c’è la convinzione diffusa che si può trovare proprio in questo modo la strada giusta per sbarrare la strada agli OGM.
È una realtà in grande fermento, di cui si dovrà pur tener conto e che non mi ha quindi ancora risolto quella baraonda di pensieri ”l’un contro l’altro armati…” che ho voluto trasferirvi pari pari in questo scritto, per avere anche un vostro parere che è sempre gradito, ma in questo caso indispensabile. Scrivete alla redazione di questo blog, ma non sparate sul pianista, perché ormai non si potrà più fermare questa musica.
Ha smesso di giocare in cortile fra i cestelli dei bottiglioni di Barbera dello zio imbottigliatore all’ingrosso per arruolarsi fra i cavalieri di re Nebbiolo e offrire i suoi servigi alle tre principesse del Monte Rosa: Croatina, Vespolina e Uva Rara. Folgorato dal principe Cabernet sulla via dei cipressi che a Bolgheri alti e stretti van da San Guido in duplice filar, ha tentato l’arrocco con re Sangiovese, ma è stato sopraffatto dalle birre Baltic Porter e si è arreso alla vodka. Perito Capotecnico Industriale in giro per il mondo, non si direbbe un “signor no”, eppure lo è stato finché non l’hanno ficcato a forza in pensione da dove però si vendica scrivendo di vino in diverse lingue per dimenticare la bicicletta da corsa, forse l’unica vera passione della sua vita, ormai appesa al chiodo.