Il valore nutrizionale

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Molto tempo fa il cibo era carissimo, i ricchi potevano strafare con gli eccessi, alimentando il ricco mercato delle spezie; i poveri, ed erano la maggioranza, a stento riuscivano a sfamarsi. Poi viene la rivoluzione industriale e con essa, da una parte, una maggiore distribuzione del reddito edall’altrala nascita, da parte del francese Brillat-Savarin, della cultura gastronomica.

Il cibo, oltre a soddisfare l’esigenza di tenere lontano la fame, diventa fonte di piacere e simbolo di convivialità. Dopo la seconda guerra mondiale il boom economico, che ha interessato gran parte dei paesi industrializzati, libera finalmente gran parte della popolazione dalla preoccupazione della fame e il consumo alimentare aumenta fino al punto da diventare un problema. L’obesità si impenna e i governi cercano di correre ai ripari. Il cibo quindi incomincia ad essere visto come uno dei fattori che più influiscono sulla salute delle persone. A tal punto che una parte importante della popolazione cerca nel cibo una motivazione salutistica e legge con attenzione le etichette alla ricerca di quelle parole magiche: light, antiossidanti, omega 3, senza OGM, senza glutine, ecc., che possono incoraggiare all’acquisto. Addio quindi al piacere, alla convivialità, alle lunghe e piacevoli discussioni sulle specificità di quel tartufo, di quel vino o di quel pesce.

Ma lasciamo da parte le idee che ciascuno di noi ha sulle connotazioni da assegnare al cibo, cerchiamo di capire il tipo di informazione che circola. Sappiamo che il prezzo delle materie prime è unico e uguale per tutte. Ho anche scritto negli articoli precedenti che, invece, la qualità è molto diversa e che le differenze che riguardano l’odore e il gusto fra il prodotto più scadente e quello più buono possono essere grandi. Vale lo stesso per il valore nutrizionale?

Certo che sì, non può essere altrimenti, perché il contenuto di ciascuna molecola cambia e, di conseguenza, anche il valore nutrizionale. Non la pensano così o queste differenze non vengono prese in considerazione, i nutrizionisti. In questo settore i luoghi comuni sono più frequentati che in altri: la carne rossa fa male, quella bianca no, il pesce azzurro è ricco di omega3, la frutta e la verdura fanno bene, i mirtilli sono ricchi di antiossidanti e così via. Tutto viene coniugato al singolare e non conosco nutrizionista che si sia posto il problema della diversità dei cibi. Un giorno ho posto questa specifica domanda ad un nutrizionista molto famoso. La risposta è stata: ma cosa vuole, mangiamo tanto di quelle cose diverse nell’arco di una giornata che, alla fine, è la somma che fa il totale. Vero, avrebbe ridetto Totò, ma se conosci il valore degli addendi. Di tutti gli addendi. Noi invece ci limitiamo all’energia e alla proteina, che saranno importanti, ma c’è ben altro e forse di più importante. Provo con due esempi.

Tutti sanno che il colesterolo è un problema e che bisogna tenere sotto controllo il suo livello. Ma in effetti il pericolo non è rappresentato dal colesterolo, molecola molto importante, ma dalla sua ossidabilità. Sono i radicali liberi che si sviluppano in seguito alla sua ossidazione a creare problemi. Quindi, più che il livello di colesterolo, nei cibi occorre conoscere anche la quantità di antiossidanti presenti, questi sì molto variabili. Prendiamo il caso del latte, spesso sotto accusa. In genere il suo livello è quasi costante, scende solo in quelli al pascolo per effetto del pascolamento, dei chilometri che gli animali fanno al giorno. Invece gli antiossidanti cambiano e di molto. Nel latte due sono le molecole con funzione antiossidante: la vitamina E e il beta-carotene.

Una ventina di anni fa Laura Pizzoferrato, una ricercatrice dell’Istituto per la Nutrizione, ideò il GPA (grado di protezione antiossidante) un indice che permettesse di cogliere il grado, appunto, di ossidabilità del colesterolo. Più alto è il GPA e più il colesterolo è protetto. Questo indice in genere varia da 0 negli animali alla stalla a 20 in quelli al pascolo. Una differenza enorme. C’è da aggiungere che a quel tempo non pensavamo ai polifenoli, potenti antiossidanti, che nel frattempo abbiamo scoperto essere molto presenti nel latte. Anche in questo caso tra la stalla e il pascolo si può passare da 20 mg a oltre 1000 mg di fenoli totali.

L’altro esempio riguarda proprio i polifenoli. Oggi vengono molto studiati per le loro proprietà antiossidanti. Ma si sa anche che a loro volta, nel momento che agganciano il radicale libero e perdono il radicale H, diventano a loro volta ossidabili. Un campo questo ancora poco conosciuto ma che lascia intravvedere implicazioni da non sottovalutare. E comunque le differenze in tutte le materie prime sono importanti. In letteratura ci sono casi, per esempio nelle cipolle, in cui si va da pochi milligrammi a oltre 4000 mg.

Lo stesso potremmo dire per le vitamine, un po’ meno per i minerali.

Ora, se pensiamo che c’è tanta gente che prende integratori di minerali, di vitamine e anche di polifenoli come fossero caramelle e se sappiamo che le molecole devono stare in equilibrio fra loro, che un fenolo può essere antiossidante e subito dopo un pro ossidante, come facciamo a dire che è la somma che fa il totale? Come facciamo a capire che ci troviamo in carenza di antiossidanti o di vitamine, o in eccesso?

Un altro degli effetti negativi di questo approccio culturale è che in questo modo si incoraggia il mercato ad accettare il prezzo unico, passa il concetto che tutte le materie prime siano uguali. E si ritorna al circolo vizioso: tutto il grano è uguale, tutto fa bene o male, il prezzo unico è giustificato, la celiachia si combatte semplicemente rinunciando al grano.

Invece così non è e non è un caso che oggi, proprio nel momento in cui si dà molta importanza alla nutraceutica, alla dimensione salutistica dei cibi, l’obesità aumenti e gli squilibri nutrizionali siano all’ordine del giorno.

Ne verremo fuori, secondo me, quando daremo “a ciascuno il suo”, quando coniugheremo al plurale le materie prime e quando il prezzo sarà legato al livello qualitativo.