La rinomata Moldova sta producendo i suoi vini della speranza
- Rolando Marcodini
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La terra che va dai Carpazi Orientali fino al fiume Dniestr e si distende tra la Transilvania, la Valacchia, l’Ucraina e la Transnistria (quanta storia e quanta leggenda in questi nomi di terre lontane, eppure in piena Europa) anticamente veniva chiamata Bessarabia, ma è divisa dal fiume Prut tra la regione rumena della Moldavia e una delle ex Repubbliche Socialiste Sovietiche che nel 1991 ha cambiato nome in Moldova e purtroppo non soltanto il nome.
Per noi che amiamo il vino e che ne cerchiamo ovunque in giro per il mondo, perché crediamo che sia un segno di civiltà e di qualità della vita, prodotto dal sole, dalla terra e dagli uomini in una simbiosi benedetta dal cielo, il territorio dei più di tremila fiumi che l’attraversano è senz’alcun dubbio un’occasione irripetibile di straordinarie scoperte enogastronomiche.
Ma il sogno durerebbe soltanto fino a superare il confine per entrare in questo piccolo stato di 33.700 kmq che nel 2021 contava poco meno di 3,6 milioni di abitanti, poiché ha un paesaggio molto bello con le boscosissime montagne ricche di foreste primordiali, con le assolate colline moreniche che si specchiano nelle acque dei fiumi e con una tradizione vinicola tramandata fin dall’antichità e rinomata sia a Est che a Ovest.
Il vino c’è, anzi sarebbe meglio dire che c’è rimasto a stento, ma c’è ancora, però è la gente che ne è scappata via a causa della miseria agghiacciante che ha fatto agonizzare questo popolo a due passi dalle grandi metropoli del benessere europeo. Dalla conquista dell’indipendenza, in trent’anni se ne sono andate più di 1.600.000 persone, vale a dire quasi un terzo della popolazione e ogni anno che passa se ne vanno altri 300.000. La realtà più tragica è che sono di più le donne, nove emigranti su dieci sono donne. Una tragedia, la disperazione di famiglie sfasciate dalla miseria, pensate che è come se dall’Italia se ne fossero andate in venti milioni, un disastro riconosciuto da tutte le organizzazioni umanitarie, una catastrofe.
Avrei preferito come sempre parlare soltanto del vino, ma non ci riesco.
Nei villaggi dove la vigna ancora cresce nelle mani sempre meno salde degli anziani le strade sono vuote, la vita per almeno una quindicina di anni dall’indipendenza si era spenta, le scuole abbandonate perché il 40% dei bambini non aveva scarpe né vestiti per andarci e la paga delle maestre, non si trovava gasolio per fare andare i trattori e le ortiche crescevano invasive dappertutto, negli ospedali si moriva per una mancata radiografia che costava 2 dollari e c’era chi vendeva le bambine agli zingari per 5 dollari.
Un lutto nazionale quotidiano, perché si sapeva che cosa andavano a fare all’estero queste ragazze e queste giovani madri con bambini da sfamare in qualsiasi modo. Quando andava bene venivano reclutate per lavori da colf, ma pagavano 1.000 dollari per un visto sul passaporto, ma quando andava male venivano perfino rapite per strada da bande di criminali della tratta delle schiave, per la prostituzione oppure per procreare bambini da destinare al fiorente mercato delle adozioni o a quello clandestino degli organi umani. E non esagero, anzi non dico che carne aveva trovato la Polizia in certe macellerie delle città solo una trentina di anni fa.
Nessuno degli Stati confinanti dell’Europa orientale, neanche quelli che erano entrati nella Nato e poi nell’Unione Europea, ha mai mosso un dito.
Anzi, avevano messo perfino degli ostacoli alle carovane degli aiuti umanitari che venivano raccolti anche in Italia dalla Croce Rossa e che molte volte venivano rapinati in Ungheria o in Romania, quando non tornavano indietro fra le lacrime dei volontari. Lacrime di uomini e donne che ne hanno viste di tutti i colori e perciò ancora più brucianti. Non entro in ulteriori particolari raccapriccianti raccolti dalla cronaca locale, ma posso assicurare che le scene quotidiane di allora andavano ben oltre ogni immaginazione.
Vorrei proporre invece un piccolissimo contributo di speranza, per questo ho deciso di scrivere questo articolo.
Pensando all’immane fatica che laggiù hanno fatto per riprendere a produrre vini con una qualità pari o superiore a quella del passato, apprezzo quei loro vini con altri occhi e credo che il riscatto di quel popolo sia ancora possibile anche grazie alla vitivinicoltura che, però, va sostenuta da tutti gli Enti di collaborazione internazionale, perché da sola non ce la fa davvero. In un Paese dove il PIL nel 1995 era di 400 dollari/anno pro-capite (cento volte meno che in Italia…) e all’inizio del millennio quasi tutti i dipendenti statali avevano a che fare con un ritardo di oltre 6 mesi degli stipendi, spesso pagati in prodotti (caramelle o bulloni), c’è voluto grande coraggio a fare affidamento anche sulla vitivinicoltura che in passato era sempre stata di buona qualità, almeno per i mercati dell’Europa orientale e della Russia.
Il territorio collinare è particolarmente adatto alla vigna, con un clima continentale mitigato dalla vicinanza del Mar Nero, terreni di ottima esposizione che degradano verso i larghi fiumi Dniestr e Prut, con precipitazioni medie di 350 mm/anno che in collina raggiungono i 600 mm e temperature medie a Gennaio di -4°C e a Luglio di 20°C. Qui si producono dei buoni vini bianchi, freschi, profumati, dei vini rossi di medio corpo come i Romănești, ma anche dei vini botrytizzati come i Grătiești , in gran parte ottenuti da sapienti uvaggi o tradizionali assemblaggi.
In questo Paese povero, il più povero d’Europa a causa di un’economia fondata sull’agricoltura per il 40% e sul terziario per il 42%, l’indice di sviluppo è il più basso e il PIL pro capite (che soltanto dopo il 2013 è fortemente aumentato grazie alle rimesse degli emigrati dall’estero) è ancora di soli 3.753 USD l’anno a fine 2021 con un PPP di 14.234 USD.
Oggi sono più che mai convinto che il futuro del Paese è nelle mani di un dolcissimo re, che sta trainando come può, nel suo ruolo di riconosciuto ambasciatore all’estero e come esempio di riscossa economica, tutto il settore vitivinicolo moldavo, essenziale per la rinascita dell’economia.
Parlo di Re Kagor, che è un grandissimo vino, uno dei migliori vini rossi dolci del mondo.
Intendiamoci bene: non è tutto oro quello che luccica, in un Paese dove domina la povertà si trovano anche dei Kagor impoveriti da quattro soldi, ma le aziende più grosse stanno reinvestendo in qualità e sono tornati alla luce i gioielli dell’enologia tradizionale moldava, i vini Kagor che avevano fatto girare la testa agli zar, agli imperatori e ai re di tutta Europa.
Il processo di vinificazione è stato messo a punto in Crimea alla fine del XIX secolo (anche se laggiù con altre uve, cioè le uve Saperavi). L’origine però è francese. In Francia era conosciuto come Kagor, Vinsant o Rogom e nel sapore ricordava molto le confetture, mentre in Spagna si chiamava Beni-Carlo e aveva anche delle note deliziose di cioccolato.
È un vino estivo, perfetto per affogarci i gelati.
Kagor non è il nome di un vitigno, ma è quello che si dà al vino prodotto da uve raccolte molto tardi dai ceppi delle varietà Cabernet Sauvignon, Merlot e Bastardo-Magarachsky (quest’ultima di origine russa), quando ormai tutte le vendemmie sono già finite da un bel pezzo, perché soltanto così il contenuto zuccherino e quello degli aromi e dei sapori delle bucce sono al massimo livello possibile.
Il tenore zuccherino delle uve in vendemmia dev’essere almeno di 220 grammi al litro e il ruolo delle bucce e dei vinaccioli per questo vino è fondamentale. Infatti, una volta separate dal mosto, un quarto delle parti vegetali si riscalda a 70°C, poi si raffredda a 25°C e successivamente si rimescola alle restanti. Dopo due ore di ”bollitura” si aggiungono i lieviti e dopo due o tre giorni si aggiunge il tutto al mosto, per circa tre o quattro settimane, quindi il vino di nuovo si separa, si svina e va alla maturazione in botti di rovere di Slavonia per un periodo da tre a cinque anni, da affinare poi in bottiglia da cinque a dieci anni prima della commercializzazione.
Alcune ditte producono dei Kagor di vera e propria eccellenza.
Fra i terreni si adottano quelli di roccia calcarea, in vigna si selezionano i grappoli e in cantina si scelgono le botti, tanto per cominciare, anziché vinificare tutto ciò che capita col parco legni che passa il convento. Sembra una scoperta dell’America, ma non è cosa da poco in un Paese che ha botti troppo vecchie e mal curate, tanto che i vini secchi di Cabernet Sauvignon e di Merlot profumano di ciclamino, quando non di porto o di marsala e non per colpa dei tappi, anche se questi sono di pessima qualità e troppo corti. Se si vuole trovare un altro difetto anche fra i Kagor buoni, c’è quello di miscelare vini di annate diverse, tanto che in etichetta è rarissimo trovare l’indicazione dell’annata, sistema spicciolo per avere un grado alcoolico appena decente, visto che il clima è maligno da queste parti e non sempre l’annata è buona.
Con i numerosi investimenti stranieri, soprattutto tedeschi, i guadagni che finalmente l’esportazione di vino sta procurando stanno rientrando in pieno nella ricostruzione delle cantine e finalmente, c’è una battaglia quotidiana anche per fare il vino bene e mirare a farlo meglio. Cricova ci sta riuscendo, a giudicare dalle buone bottiglie che ho degustato ultimamente a Katowice presso la Vinoteka Burgundia di Wiktor Żelazny (premiato con il grappolo d’oro dai lettori della rivista Świat Win).
Ho avuto la fortuna di sedere allo stesso tavolo con Darek Sajdok, ottimo naso di Collegium Vini, e con una giovane e simpaticissima signora che aveva potuto visitare di persona le cantine di Cricova, una delle poche ad avere una tecnologia adatta, che dal 1954 ha prodotto vini da ben 465 varietà d’uva diverse. Cricova è una vera città sotterranea con i suoi 120 chilometri di gallerie (visitabili dagli enoturisti con minibus elettrici) che a una profondità tra 50 e 100 metri si mantengono naturalmente a una temperatura costante di 12°C e un’umidità fissa al 97%. Tra i loro Kagor che ho degustato me ne sono piaciuti due. Il primo era in una bottiglia personalizzata con lo stemma prestampato nel vetro e il secondo in un’anfora di vetro scurissimo rivestita di vimini, da qualche anno sostituita da una bottiglia normale con l’etichetta del Kagor Pastoral.
Contrariamente a quello che succede in Italia, quest’ultima forma di bottiglia non era uno specchietto per le allodole (leggi turisti), ma un tipico e collaudato sistema di affinamento che effettivamente differenzia nel tempo il vino da quello contenuto in una semplice bottiglia. Il rivestimento di vimini era necessario per farla stare in piedi.
Il vino Kagor affinato in bottiglia normale era dolce, 160 grammi di zuccheri residui, tenore alcoolico del 16%, rosso rubino, delicatamente aromatico ma ricco dei profumi fruttati di mora e ribes nero, sapore che ricordava in successione lampone, ciliegia, prugna, marasca e confetto, un vino molto rotondo e pacioso, desiderava la pasticceria secca, specialmente alle mandorle.
Il vino Kagor affinato invece nell’anfora di vetro rivestita di vimini, nonostante lo stesso tenore di zucchero e alcool, era dolce ma con un delicato retrogusto mandorlato e secco, di colore rosso rubino più intenso e concentrato, con gli stessi aromi più pronunciati e leggermente speziati che avrebbero fatto l’amore con i cioccolatini ripieni di agrumi canditi e le gelatine di frutta. Anche il sapore era più etereo e potente, così ha conquistato i più reconditi angoli del palato, sviluppando di ritorno verso le sedi interne dell’olfatto una leggerissima sensazione di ottimo rosolio siciliano.
Tutti d’accordo: due vini da affogarci il gelato! Ideali in una coppa di gelati alla vaniglia, alla crema, allo zabaglione, affogati appunto nel Kagor, ma la fantasia dei miei vicini correva ormai veloce, si sono fatti spiegare da me anche come si può fare il mascarpone, che sembra eccezionale con questo vino, mentre io continuavo a proporre anche un’accoppiata alla bresciana, quella del vino rosso in un buon caffè. Ai tavoli vicini ho visto però servire comunque anche delle invitanti carni rosse in salse dolci e altre piccole portate tipiche delle cucine slave che giocano sull’equilibrio piccante/dolce.
Sarà per via della neve abbondante e del gran freddo che c’era, ma questi vini rossi dolci sono piaciuti anche pasteggiando, del resto anche i francesi adorano pranzare e cenare con lo champagne e siamo soltanto noi italiani, purtroppo, a confinare entrambi questi tipi di vino soltanto nella zona dei dessert, forse per il prezzo, dato che si tratta di prodotti d’eccellenza.
Ha smesso di giocare in cortile fra i cestelli dei bottiglioni di Barbera dello zio imbottigliatore all’ingrosso per arruolarsi fra i cavalieri di re Nebbiolo e offrire i suoi servigi alle tre principesse del Monte Rosa: Croatina, Vespolina e Uva Rara. Folgorato dal principe Cabernet sulla via dei cipressi che a Bolgheri alti e stretti van da San Guido in duplice filar, ha tentato l’arrocco con re Sangiovese, ma è stato sopraffatto dalle birre Baltic Porter e si è arreso alla vodka. Perito Capotecnico Industriale in giro per il mondo, non si direbbe un “signor no”, eppure lo è stato finché non l’hanno ficcato a forza in pensione da dove però si vendica scrivendo di vino in diverse lingue per dimenticare la bicicletta da corsa, forse l’unica vera passione della sua vita, ormai appesa al chiodo.