Le forme del cibo
- diTestadiGola
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In principio fu il bento, un anonimo vassoio in plastica con coperchio, utile a contenere i piccoli pasti preparati a casa, che il silente popolo giapponese consuma come se non ci fosse un domani, praticamente ovunque. In metro, al parco, alla fermata dell’autobus (e sì che a Tokyo gli autobus passano una via l’altro), sul posto di lavoro, nelle sale pachinko.
I giapponesi mangiano ovunque, ma soprattutto riescono a rendere sin dalla notte dei tempi gioioso e lieve quell’ammasso di pesce, riso e brodaglia. Come? Grazie alla bellezza insuperabile del bento, appunto, a quello che era packaging ancora prima che il packaging esistesse. Ma cos’è esattamente il packaging? Se dovessi spiegarlo a mia nonna, direi che si tratta di un contenitore figo, di un modo creativo e spiritoso per confezionare –nella fattispecie– il cibo. E a che serve a nonna? Mi chiederebbe lei. A nulla, le risponderei con una punta di fierezza.
La passione che l’uomo medio occidentale ha per il superfluo è sfacciatamente crassa, e tale furia consumistica produce eserciti di designer narcisisti che si producono a loro volta in esercizi di stile di pubblica inutilità ma di profonda consolazione estetico-sensoriale.
E così finisce che il mezzo sfilatino che stiamo per profanare farcendolo di peperoni e provola si trasforma nel copricapo di un essere immondo che abita le foreste di paesi invisibili, o che un semplice sacchetto della spesa ci ricordi, cosa mangiamo, quanto mangiamo e soprattutto di cosa si riempirà di lì a breve il nostro provato stomaco (memento mori?).
Gli amanti della birra possono tentare la strada dell’acchiappo sicuro ordinando una fantastica birra pantone: niente etichette ma solo codici, colori, numeri. E in un batter di ciglia una Golden Ale si trasforma in un 15 95 C.
Chi l’acchiappo lo tenta al tavolino di una sala da tè può invece divertirsi ad immergere nell’acqua bollente una bustina odorosa a forma di t-shirt (tee-shirt, ca va sans dire) rigorosamente attaccata alla sua gruccetta. Per i più romantici, a disposizione invece la bustina origami a forma di uccello: da usarsi rigorosamente in una tazza trasparente.
I ritmi inumani della catena di montaggio e la passione per i motori rombanti ci portano direttamente all’America del primo Novecento e ad Henry Ford che quando scelse di mettere in produzione il suo furgone mai pensava che un secolo e mezzo dopo sarebbe stato utilizzato come scatola per grissini.
Frutta fresca, anzi freschissima è quella che ci aspettiamo di trovare dopo aver letteralmente ‘sbucciato’ le bottiglie di caipiroska prodotte dalla Smirnoff. Effetto antistress garantito, assieme a quello di ebbrezza molesta, naturalmente.
Zero alcool hanno invece i succhi la cui confezione, priva di scritta alcuna, riproduce fedelmente la superficie del frutto che contiene: per una comunicazione esclusivamente visiva che va in aiuto ai più miopi.
Chiudiamo a nostra carrellata ricordando che ognuno di noi produce ogni anno circa 34 chilogrammi di rifiuti da imballaggio, e che il packaging ancorchè creativo può anche essere virtuoso e strizzare l’occhio al pianeta e alla sua salute. In questa direzione guardano alcune aziende americane che hanno creato cibi che si consumano all’interno di speciale membrane commestibili che non ne alterano il sapore, o anche colorati bicchieri da cocktail che si sgranocchiano al posto delle patatine una volta terminato il fresco abbeveraggio.
Per tornare a mia nonna e ai suoi Ma che senso ha? che avrebbe da elevare di fronte a questa delirante, ipervitaminica sequenza di inutilità, la risposta è una e una sola: tutto questo è bello nonna, è maledettamente bello.
di Sarah Galmuzzi