L’Orto dei frutti dimenticati di Pennabilli. Un viaggio nel mondo di Tonino Guerra (Parte I)
- Stefano Gallerani
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Quando abbandona Roma, nel 1984, per tornare in Romagna, Tonino Guerra ha appena vinto il Premio Campiello con il romanzo La pioggia tiepida, sta lavorando ancora una volta con Federico Fellini alla sceneggiatura di quel capolavoro dell’ “età tarda” che è Ginger e Fred e alle spalle si lascia più di trent’anni di libri (La storia di Fortunato, il primo titolo, nel 1952, piovuto sulla scrivania di Elio Vittorini come un meteorite da un’altra galassia), film (con Antonioni, Rosi, Monicelli, Petri e, ovviamente Fellini), eclissi, notti e avventure: uno dei rami più nobili dell’araldica culturale italiana della seconda metà del Novecento. Per lui, il ritorno a Santarcangelo è più che un ritorno alle origini mai dimenticate: l’alternativa è Parigi, la molla la stanchezza e la voglia di bagnarsi di nuovo alle piogge di settembre, asciugarsi ai tramonti dell’infanzia, respirare l’odore di muschio, sentire il profumo della legna paterna e quello del pane appena sfornato: il pane della terra. La sua terra.
Ma a metà degli anni Ottanta Santarcangelo è diventata una qualsiasi città della provincia italiana: non ci sono più cavalli ma motorini, non più osterie ma ristoranti, nessuna nebbia innocente, solo polveri sottili. Non c’è più quello che di cui il poeta de I bu ha bisogno: non c’è più la natura, quell’idea, quel concetto, quello stato mentale che gli cade addosso come un abito cucito su misura e che alimenterà ogni gesto (poesie, narrazioni, pitture) di questo nuovo, personalissimo Rinascimento privato. La strada di Tonino si inerpica allora sui sentieri appenninici del Montefeltro che già il padre aveva percorso quasi mezzo secolo prima. Fugge dagli spettri, Tonino, e insegue i fantasmi. Protetto dalle Mura della Rocca Malatestiana, ripara a Pennabilli, tra le stanze della casa che diventerà dei Mandorli. Davanti, il paesaggio della Valmarecchia lenisce la ferite del vecchio leone. È la stagione di un ritrovato vigore: la fantasia, rigenerata, corre sui fogli: racconti, poemi, disegni si accumulano senza sosta; una nuova parentesi cinematografica si apre tra passato (Monicelli, Rosi) e presente (Amos Gitai, Tornatore, Angelopolus).
Eccitata, la poesia prende corpo nel paesaggio. Si fa parco, fontana, scultura naturale. Da questo flusso costante nasce, tra gli altri progetti, l’Orto dei frutti dimenticati: per recuperare la memoria di tesori perduti, Tonino li reinventa, pensa a una collocazione metaforica e strategica e la scova proprio nel cuore di Pennabilli, dietro Porta San Filippo, sulle terre che erano già appartenute ai Frati del Preziosissimo Sangue. L’idea si realizza nel 1990 sopra la valle del Messa e sopravvive tutt’ora per essere celebrata annualmente alla fine di ogni estate.
Popolato di piante spontanee – che qui vengono preservate dall’oblio botanico – l’Orto è un santuario pagano di pomi, fiori e pollini in cui, negli anni, hanno trovato collocazione sculture e omaggi (quattro anni dopo la sua apertura, il Dalai Lama ha vi ha piantato il Gelso della Pace). Varcata la soglia di pietra che lo chiude alla strada, l’Orto scende dolcemente seguendo il fianco del pendio, alla sinistra, l’ “Arco delle favole per gli occhio dell’infanzia”, di Giò Urbinati. Oltre le sue ceramiche colorate si intravede “La Voce della Foglia”, una fontana ispirata da Tonino e realizzata da un collettivo di pennesi, “Il Gruppo del ferro”, su progetto di Luigi Berardi. Dalle venature di questa enorme foglia di quercia, l’acqua scorre continuamente e cade alla base animando la scultura. Più avanti sulla destra, la cappella dedicata al regista Tarkovskij e sigillata dalla splendida “Porticciola delle lumache”, di Aldo Rontini e, ancora, la “Meridiana dell’incontro”, dello scultore polacco Krysztof Bednarsk, che scandisce le ore con le ombre di Federico Fellini e Giulietta Masina. Continuando a scendere, poi, davanti al “Villaggio degli uccelli” si apre il lavatoio del paese, fregiato con frasi di Tonino, una per ogni mese dell’anno. Numerose e preziose le specie protette nell’Orto: mele annurche, campanine, cotogne, limoncelle, renette e ruggine; pere more di Faenza, volpine, curate, campagnine,susine rusticane e gostiniane, visciole, fichi verdini, pesche giambela, azzeruoli rossi e azzeruoli gialli, ciliegie cuccarine, ribes, mirtilli, melograni, nespole, sorbe, uve e more. Un elenco sterminato e fantasioso che da solo vale un prosimetro.
Due settimane fa, molti di questi frutti hanno popolato la Chiesetta sconsacrata di San Filippo mentre numerosi eventi – patrocinati dalle autorità locale, da Lora, l’ultima compagna di Tonino Guerra e, soprattutto, dal figlio del poeta, il compositore Andrea, presidente della fondazione che porta il nome del padre – hanno celebrato la memoria di un uomo che con il tocco delicato della poesia ha piegato la brutalità delle cose fino a che la natura ha preso la forma di una fiaba rigogliosa e complessa.
Personalmente, non ringrazierò mai abbastanza Andrea che, lasciandomi sedere sulla sedia del padre, con un gesto più significativo di molte parole mi ha fatto diventare parte di un mondo in cui se gli intellettuali interpretano la realtà e i suoi problemi, sono solo i poeti come Tonino, quelli che sognano a occhi aperti, a inventarne le soluzioni.
Stefano Gallerani è nato il 4 ottobre del 1975 a Roma, dove vive lavorando in televisione. Suoi articoli e saggi sono apparsi su «Alias», supplemento letterario de «il manifesto», “l’Unità”, “Il Mattino” e “Playboy”. Collabora con le riviste «Il Caffé Illustrato» e «L’Illuminista». Altri contributi sono apparsi su “Nuovi Argomenti”, «Alfabeta2», «Il Giannone», «Allegoria» e «Reportage». Nel 2014 ha pubblicato “Albacete” (Lavieri). Il suo ultimo libro. “A Buenos Aires con Borges” è uscito nel giugno scorso per i tipi di Giulio Perrone Editore.