Marek Bieńczyk, un ”franco tiratore” in Polonia
- Rolando Marcodini
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Ed ecco un altro pezzo di Marek Bieńczyk, subito dopo il primo che vi ho tradotto e proposto mercoledì scorso ed è in archivio.
L’avevo trovato in un numero di luglio della rivista polacca Magazyn Wino diretta allora da Wojciech Gogoliński quand’era Presidente dell’Associazione polacca dei Sommelier (SSP) e precisamente nella rubrica ”Note intorno al tappo”. Che parafrasava quella di ”Note intorno al camino”.
Stimo molto lo scrittore polacco Marek Bieńczyk, ”istericamente europeista” poiché in Europa si è sempre sentito a casa. A Parigi ha vissuto per 15 anni, infastidito dall’eccessivo anonimato delle persone sempre affaccendate di questa città dove si può nuotare in piscina o giocare a ping-pong con dei perfetti. Varsavia è il suo destino, anche se aveva avuto la possibilità di emigrare quando era più giovane, quando esistevano ancora la cortina di ferro e il muro di Berlino, magari da una sorella emigrata in Danimarca oppure dai figli di uno zio in Canada, ma non ha mai preso la cosa seriamente in considerazione. Anche se è rimasto l’ultimo della sua famiglia a restare in Polonia, questo è il suo posto, questa è la sua lingua, e fa lo scrittore di professione nella sua lingua, anche se a volte pensa a cosa ci faccia ancora lì.
Nato nel 1956, traduce testi della letteratura francese.
Nel 2012 ha ricevuto il premio letterario Nike per la raccolta ”Book of Faces”. Il suo ”Jabłko Olgi, stopy Dawida” (La mela di Olga, i piedi di Davide) è stato riconosciuto dal settimanale polacco Polityka come il libro dell’anno 2015. Di solito mi riesce di solito assai difficile tradurlo perché costruisce spesso le frasi come fanno i letterati e soltanto i letterati infatti le sanno interpretare. Questa volta invece è stato più chiaro del solito e perciò lo sottopongo alla vostra attenzione con una coscienza più tranquilla. Non sparate sul pianista!
Il traduttore: Rolando Marcodini
Alleati “brillanti”
Non ci sono dubbi che la più letta, la più importante, ma anche la più debole tra le grandi riviste sul vino sia Wine Spectator. Questa massa di carta, per il cui trasporto occorre una piccola valigia (adatta a servire come comodo sgabellino se si sovrappongono un paio di numeri), è diventata già da tempo l’oracolo dei consumatori e dei produttori. Certo che non è una cattiva rivista se vogliamo sapere qualcosa sui formaggi, sui sigari, sulla cioccolata o sugli spaghetti, oppure annotarci qualche ristorante newyorkese o hawajano dove spendere trecento dollari per un pasto (senza contare, cosa chiarissima, il vino). Questa rivista è davvero buona anche per chi non sa come servire il caviale o in quali ricette usare cardamomo e tamerice (ma cosa sarà poi questo diavolo di tamerice?).
Il nome della rivista inganna; in realtà di vino qui non se ne trova molto e, quando c’è, in genere annoia.
Infatti, c’è un interessante feuilleton di Matt Kramer, a volte ci sono un paio di capoversi di Laube e non molto di più. Tutto il resto ci ricorda che il Douro è in Portogallo, la Valle del Rodano è in Francia e altre ovvietà, oltre a un po’ di informazioni sulle annate in successione. Però, anzi soprattutto, il resto è una pedante ripetizione di valutazioni on the Wine Spectator 100-point scale. La cura di queste scale, la sua autoadorazione, è un’idea tanto idiota quanto geniale. Grazie a questo Wine Spectator mangia, per questo vive, si occupa esclusivamente del suo consolidamento costruendo tutta la rivista su base tautologica, cioè, per dirla a modo nostro, nel circolo di Matt.
Nel ristretto circolo di Matt. Il tipico articolo che questo autore dedica a qualche regione vinicola è una breve analisi dei vini degustati dal senior o dal junior editor (l’autorevolezza dei titoli autoaggiudicati dai componenti della redazione ci ricorda ”l’Operetta” di Gombrowicz…) con la loro valutazione in punti (insieme con il richiamo alla Wine Spectator 100-point scale) e la loro reiterazione in una tabella accanto. La valutazione di alcuni vini si ripete almeno tre volte in un solo numero (ancora nel new releases e nel wine tasting report in fondo all’articolo), a volte anche quattro (cioè all’inizio, tra i prescelti e raccomandati). I punti e la scala sono la vera ossessione dei redattori. In quasi tutti gli articoli si affaccia anche un po’ di matematica, qualche statistica, dei calcoli: quanti vini di questa denominazione si trovano in questo comparto di punti, quanti in quest’altro, quanto fa la media, quanto fa la media dell’annata oppure il risultato in confronto con altre denominazioni, eccetera, eccetera.
Ricordo dai miei studi un certo insegnante per il quale la statistica era una mania, evidente e bella.
Alla fine di ogni semestre, durante un’apposita lezione, annunciava quanto era stata la frequenza per quei mesi, quanti studenti in media si erano presentati al primo mese, quanti all’ultimo, quante donne, quanti uomini, eccetera, eccetera.
Non nego del resto che questa era la sua lezione più curiosa. Vi dico: ossessione, mania e ancora volentieri direi paranoia, però è ben noto che tutto questo è meditato, in una parola l’astuta strategia di Wine Spectator fa assegnamento sulla dote ”principale” di un vino, che è quella di rendere assoluta, inesorabile e molto, molto importante la valutazione in punti on the Wine Spectator 100-point scale.
Naturalmente la costruzione dell’immagine della rivista come luogo in cui si crea l’opinione e che rilascia valutazioni molto importanti non deve sconvolgere, come non deve incuriosire anche il fatto che a queste si accompagnino dei profitti certi e non soltanto sotto la forma di una pubblicità che occupa metà delle colonne (in fondo una rivista deve pur vivere di qualcosa) o dei pedaggi pagati dai ristoranti per introdurre il loro nome nella lista dei migliori, per finire con quelle 72 bottiglie per ogni vino che devono essere inviate alla redazione dai produttori (come ha saputo Wojciech Bońkowski in Priorato) se vogliono che la scelta dei loro vini venga confermata nella lista dei 100 vini dell’anno.
Mettiamo che debbano presentarle qua e là, farle assaggiare al presidente, verificarne la qualità dopo un anno. Tuttavia può stupire, e anche sconvolgere, che la rivista più famosa al mondo dedicata al vino secondo i migliori principi americani della prammatica si sia trasformata in un mero prodotto tecnico e mercantile.
Cerco di colpire questo elefante con l’appendice di un bastardino della Vistola, ma non per motivi d’invidia o spirito di rivalità.
Veramente non cambierei nulla della capricciosa espressione del pensiero nel ricordare ogni due righe che a un vino di cui ho parlato ho dato anch’io 91 punti (on the Magazyn Wino 100-point scale).
Si tratta però di un modo riduttivo di parlare del vino, del quale Wine Spectator è diventato un impareggiabile maestro e si impone come modello alle altre riviste. Quando nei diversi eventi vinicoli converso con i giornalisti e i produttori, mi informo di una moltitudine di cose interessanti. La gente ha tanto da dire, tanto si può sapere da loro, imparare, e da questo nascono tante discussioni e pure polemiche. Tutto questo poi dove si perde? Perché si ottiene così poco dalle colonne delle riviste, perché lisciano il loro vero volto e si spalmano di vaselina innocentemente come si fa con il proverbiale culetto dei neonati?
I senior editors di Wine Spectator risiedono stabilmente a Bordeaux, in Borgogna o in Piemonte, perché dai loro testi si può ricavare soltanto così poco? A prima vista la risposta sembra chiara: è di colore verde, circa quattro centimetri per dieci e sopra compaiono diverse cifre (e il volto di George Washington, ndt). Quando pongo delle domande, quelle intelligenti persone intelligentemente sorridono e intelligentemente spiegano che non si pubblica niente d’altro e i produttori non vogliono né vedere né leggere altro.
Nel romanzo di Milan Kundera ”Immortalità” si affaccia il concetto dei ”brillanti alleati dei propri becchini”. Chi sono quegli alleati dei becchini?
Una delle basi di quel romanzo è un certo Grizzli che si rivolge all’eroe principale, il cinico Paul, che intelligentemente parla a lungo di Beethoven e dei soldi con queste parole: «Niente pretende dal pensiero uno sforzo più grande dell’argomentazione per giustificare la mancanza di pensiero. Dopo la guerra ho potuto constatarlo con i miei occhi, gli intellettuali e gli artisti hanno aderito come vitellini al partito comunista, che li ha poi liquidati con grande piacere e sistematicamente. Tu fai esattamente lo stesso. Sei un “brillante alleato dei propri becchini”».
Quando siamo troppo intelligenti e cinici per parlare del vino come inesauribile e inafferrabile, oscuro, oggetto del desiderio e continuamente ricordiamo che in realtà si tratta di prodotto, mercato, punti e vendite, diventiamo alleati dei propri becchini. Brillanti per 100 punti (on the Wine Spectator 100-point scale).
Marek Bieńczyk
Ha smesso di giocare in cortile fra i cestelli dei bottiglioni di Barbera dello zio imbottigliatore all’ingrosso per arruolarsi fra i cavalieri di re Nebbiolo e offrire i suoi servigi alle tre principesse del Monte Rosa: Croatina, Vespolina e Uva Rara. Folgorato dal principe Cabernet sulla via dei cipressi che a Bolgheri alti e stretti van da San Guido in duplice filar, ha tentato l’arrocco con re Sangiovese, ma è stato sopraffatto dalle birre Baltic Porter e si è arreso alla vodka. Perito Capotecnico Industriale in giro per il mondo, non si direbbe un “signor no”, eppure lo è stato finché non l’hanno ficcato a forza in pensione da dove però si vendica scrivendo di vino in diverse lingue per dimenticare la bicicletta da corsa, forse l’unica vera passione della sua vita, ormai appesa al chiodo.