Pestìth, Pestìf & parenti
- Fabiana Romanutti
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Oggi Fabiana Romanutti ci suggerisce la conoscenza di un prodotto della Val Tramontina in provincia di Pordenone. Ne scrive nel quotidiano on line www.qbquantobasta.it Alessandra Disnan,
PESTÌTH, PESTÌF e i suoi simili. Che cos’è? Dove si trova? Come si mangia? L’ho scoperto in occasione della cena a tema all’Osteria Turlonia di Praturlone, Fiume Veneto (PN) dove sono andata in missione per qbquantobasta. L’evento, voluto dalla Condotta Slow Food del Pordenonese, ha trovato in Federico Mariutti, titolare dell’Osteria insieme alla moglie Isabella, nonché Cuoco dell’Alleanza Slow Food, il perfetto ambasciatore.
Già il nome del prodotto con le sue varianti incuriosisce. Un interessante quadernetto dedicato interamente al Pestìth ci ha accompagnato lungo tutta la serata, con le spiegazioni della sua autrice, Franca Teja. Proprio grazie a lei ho potuto conoscere nel dettaglio storia, tradizioni e preparazione di questo piatto. Ma andiamo per gradi.
CHE COS’E’. Il pestìth è una rapa fermentata tipica della Valcellina. La rapa, ortaggio umile e talvolta dimenticato, è stata una grandissima (e talora quasi esclusiva) risorsa alimentare invernale per la zona. Il clima piovoso e molto fresco della Valcellina fungeva da habitat ideale per la coltivazione. Per la scarsità di ortaggi disponibili in certi mesi dell’anno, le rape non venivano consumate fresche, ma venivano conservate attraverso un metodo oggi tornato in voga: la fermentazione.
IL PROCEDIMENTO DI PRODUZIONE
Tutto nasce dalla scelta del seme (varietà Brassicola rapa rotunda) e dalla semina che avveniva tra luglio e agosto. La scelta del periodo di semina non era casuale, ma veniva scandita dalla luna, dalla festività legata a un santo o in base alla raccolta/semina di un altro ortaggio. Dopo una rapida germinazione e dopo alcune brinate, arrivava il tempo della raccolta solitamente in occasione di San Simone (28 ottobre).
Si procedeva quindi con la pulizia e il lavaggio. Si proseguiva con una sbollentata in acqua salata per poco più di un minuto. A quel punto, in un recipiente di legno, si disponevano a strati le rape precedentemente tagliate a pezzi, unitamente alle loro foglie e intervallate da qualche granello di sale grosso, una spruzzata di aceto e qualche chicco di mais. Si terminavano quindi gli strati con una foglia di verza anch’essa sbollentata. Il tutto veniva poi coperto con un coperchio di legno o con delle semplici tavole, sulle quali veniva posizionato un pesante sasso, precedentemente pulito e disinfettato. La pressione del sasso aiutava la fuoriuscita dell’acqua delle rape. In base al livello di fuoriuscita oltre il coperchio, si valutava la corretta fermentazione, che terminava generalmente in corrispondenza del periodo natalizio.
Le rape fermentate venivano lavate (ma non sempre) e posizionate sul tipico tagliere di legno (pestassa o pestatha) e tagliate con il manaruòl (o manaruèl, manarìn, manàra, manèra). Solo l’utilizzo di un tagliere di legno duro e di un coltello pesante garantiva la rottura dei fastidiosi filamenti delle foglie.
COME SI CUCINA
Le rape e le foglie sminuzzate venivano cucinate in un soffritto di olio, aglio, cipolla, sale e pepe e qualche volta anche di lardo o burro. La cottura avveniva in circa due
ore; a dieci minuti dal termine veniva aggiunta una sorta di polentina liquida, chiamata scot, brout, suf o šuf a seconda delle zone. In alcuni casi, per insaporire maggiormente il pestìth, veniva aggiunta e mescolata al tutto anche della carne di maiale. Il pestìth poteva finalmente arrivare a tavola. Ad accompagnarlo c’era del buon musetto, salsiccia e/o il salame grasso.
Fabiana Romanutti
Friulana di nascita, triestina di adozione. Quanto basta per conoscere da vicino la realtà di una regione dal nome doppio, Friuli e Venezia Giulia. Di un’età tale da poter considerare la cucina della memoria come la cucina concreta della sua infanzia, ma curiosa quanto basta per lasciarsi affascinare da tutte le nuove proposte gourmettare. Studi di
filosofia e di storia l’hanno spinta all’approfondimento e della divulgazione. Lettrice accanita quanto basta da scoprire nei libri la seduzione di piatti e ricette. Infine ha deciso di fare un giornale che racconti quello che a lei piacerebbe leggere. Così è nato q.b. Quanto basta, appunto.