Prosciutto cotto: i segreti per riconoscere quello di qualità.

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Il prosciutto cotto è il salume preferito dagli italiani: nel 2020 ne abbiamo consumato circa 4 chili a testa, un quarto del totale dei salumi. È molto amato dai bambini, costa meno del crudo e generalmente è meno grasso, quindi percepito come più salutare. Al momento dell’acquisto c’è l’imbarazzo della scelta: le tipologie sono molte e i prezzi, per il cotto confezionato già affettato, vanno da 8 a 60 euro al chilo. Chiaramente si tratta di prodotti diversi ma le differenze non sono sempre chiare e, per comprenderle, bisogna innanzitutto considerare come viene prodotto.

Il prosciutto cotto è definito dalla legge (*) come: “prodotto di salumeria ottenuto dalla coscia del suino eventualmente sezionata, disossata, sgrassata, privata dei tendini e della cotenna, con impiego di acqua, sale, compreso il sale iodato, nitrito di sodio, nitrito di potassio eventualmente in combinazione fra loro.”

 

La produzione comprende diverse fasi: prima di tutto le cosce di maiale sono disossate ed eventualmente sgrassate. Nella successiva fase di “siringatura” viene iniettata nella carne attraverso degli aghi una salamoia costituita da acqua, sale, aromi, zuccheri e additivi per la conservazione. La coscia viene poi “massaggiata”, cioè mossa con movimenti simili a un massaggio per rendere omogenea la penetrazione della salamoia, e poi inserita all’interno di un contenitore di metallo a forma di parallelepipedo (stampo) che conferisce la forma. Infine la coscia viene cotta e tolta dallo stampo per essere confezionata in un involucro e, in alcuni casi sottoposta a pastorizzazione per aumentare l’intervallo di conservazione.

Gli ingredienti principali sono: coscia di suino (o carne di suino), sale, aromi e come additivi ascorbato di sodio in funzione di antiossidante e nitrito di sodio come conservante. Oltre a questi due additivi presenti nella maggior parte dei prodotti oltre a zucchero (o l’analogo destrosio) e a volte glutammato, lattosio e acqua. Più raramente vengono impiegati: polifosfati, usati come stabilizzanti, carragenine e proteine del latte. Non tutti i prosciutti sono uguali, quelli di minor pregio non utilizzano la coscia di suino intera, ma parti di coscia assemblate e aggregate.

Per distinguere i diversi tipi di prosciutto cotto, e comprendere le differenze di prezzo, è importante leggere le etichette, anche se questo spesso non è sufficiente. Abbiamo chiesto un parere al direttore dell’Associazione industriali delle carni e dei salumi (Assica). “Il prosciutto cotto – spiega Davide Calderone – può essere preparato esclusivamente con la coscia e non con altre parti del suino. Questa può essere utilizzata tal quale (dopo alcune lavorazioni minime necessarie a renderla idonea alla cottura), e in questo caso sono visibili le principali fasce muscolari. L’alternativa è impiegare muscoli “ritagliati” dalle cosce che vengono lavorati attraverso la siringatura per l’inserimento degli ingredienti. Segue poi il massaggio e successivamente il compostaggio negli stampi per ricostruire una massa da sottoporre a cottura.”

 

Una prima differenza è quindi l’uso di coscia tal quale oppure parti di coscia riaggregate. Come possiamo distinguere i due prodotti? Innanzitutto dobbiamo leggere l’etichetta che differenzia fra “prosciutto cotto” senza ulteriori specifiche, “prosciutto cotto scelto” e “prosciutto cotto di alta qualità”. Queste tre categorie sono definite in base all’umidità del prodotto sgrassato e deaddittivato (Uspd), un parametro legato al tasso di umidità presente nel prodotto finale. Nel prosciutto cotto senza ulteriori specifiche, l’Uspd può raggiungere al massimo l’82%, nel “prosciutto cotto scelto” si arriva al 79,5% mentre “prosciutto cotto di alta qualità” non può superare il 76,5%.

 

 

Il prosciutto più economico è quello di forma quadrata che si utilizza per i toast

Un altro aspetto importante è che nel prosciutto cotto scelto e in quello di alta qualità devono essere “chiaramente identificabili almeno tre dei quattro muscoli principali della coscia. Il semplice “prosciutto cotto”, invece, è un salume meno pregiato e può essere ottenuto con parti di coscia aggregate (in cui non si distinguono le fasce muscolari), ha un contenuto maggiore di umidità e si presenta con fette più lucide, che si attaccano più facilmente fra loro. L’altra cosa da segnalare è che il prosciutto cotto di alta qualità è soggetto a restrizioni volontarie nell’uso di additivi.

 

“L’acqua – spiega Calderone – è naturalmente contenuta nella carne e in genere oscilla intorno al 70%. L’Uspd nel prodotto finito è usato come indice di qualità perché questa differenza, apparentemente piccola, è il risultato di fattori come la qualità della carne, la quantità di acqua aggiunta con la salamoia e lil metodo utilizzato per il massaggio e la cottura. Questo paramento tiene conto del tasso naturale di umidità della coscia fresca, ma può variare anche in funzione della lavorazione cui è sottoposto il prodotto, determinando una differenziazione qualitativa. La quantità massima di acqua che può essere aggiunta per il processo tecnologico è fissata al 5%, quando si supera l’acqua deve essere dichiarata in etichetta. In questo caso deve essere anche specificata la quantità di carne nel prodotto finito.”

 

Per distinguere un prodotto dall’altro dobbiamo vedere se si tratta di semplice “prosciutto cotto”, oppure “scelto” o “alta qualità” e poi capire se è stata aggiunta acqua in misura maggiore del 5%, ricordando che la presenza di acqua fra gli ingredienti in etichetta suggerisce un processo di lavorazione il cui risultato è un prodotto di qualità inferiore. Sull’etichetta devono essere indicati anche quanti e quali additivi sono stati utilizzati. Gli “aromi naturali” sono estratti da materia prima di origine animale o vegetale, mentre quando troviamo la parola “aromi” vuol dire che sono stati sintetizzati in laboratorio. L’aggiunta dell’esaltatore di sapidità glutammato, oppure di stabilizzanti come le carragenine o i polifosfati lasciano ipotizzare pensare che la materia prima non sia di ottima qualità.

 

In un recente servizio la trasmissione Report della Rai si descrive un procedimento di lavorazione del prosciutto cotto in cui la carne viene tritata e aggregata, con aggiunta di “misteriose” polverine. “La procedura che prevede di tritare la coscia di suino e amalgamarla con acqua e additivi non è utilizzata dall’industria alimentare – precisa Calderone – anche perché non conviene. È consentito utilizzare i ritagli delle cosce riaggregati e ricompattati e, in questi casi, è verosimile un maggiore utilizzo di additivi come aromi e stabilizzanti, per “migliorare” il prodotto. Si usa un procedimento simile per i tranci di prosciutto di forma quadrata utilizzati per i toast. Le procedure e gli additivi utilizzati sono ammessi dalla normativa (in caso diverso siamo di fronte a una truffa e non alla norma), ed è chiaro che non si tratta di prodotti di qualità elevata, ma più economici di altri salumi .”

 

Certamente i sacchetti con le polverine misteriose che si vedono nel servizio di Report catturano l’attenzione dello spettatore, ma va precisato che gli additivi utilizzati sono tutti ammessi. C’è chi ne usa di più e chi di meno, e questo attesta una diversità qualitativa importante, ma i coloranti, per esempio, nei prosciutti sono vietati e non ci risulta che vengano utilizzati per colorare la carne degli hamburger.

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Nella foto che mostriamo sopra riportiamo l’etichetta di un prosciutto cotto venduto a meno di 8 €/kg. La carne suina rappresenta e il 74% e fra gli ingredienti troviamo acqua, destrosio, lattato di potassio, polifosfati e carragenine.

 

La maggior parte delle vaschette che troviamo al supermercato contiene “prosciutto cotto di alta qualità” e i prezzi oscillano intorno a 25-35 €/kg nella maggior parte dei casi. Il cotto senza ulteriori specifiche è spesso indicato “per toast” e venduto in confezioni forma quadrata oppure in tranci a un prezzo variabile fra 10 e 15 €/kg. I prodotti che costano 50-60 €/kg, sono produzioni tradizionali che utilizzano procedure particolari, carni locali e maiali allevati all’aperto, con sistemi che tengono conto del benessere animale. In questi casi le aziende puntano su un aspetto che non si può emergere dall’elenco degli ingredienti sulle etichette, cioè la qualità della materia prima, le modalità di allevamento e le caratteristiche dei suini utilizzati.

 

(*) Decreto sulla Salumeria Italiana del 21 settembre 2005 (rivisto nel 2016). Il decreto specifica precisa che: “Nella produzione del prosciutto cotto possono essere impiegati vino, inclusi i vini aromatizzati e liquorosi, zucchero, destrosio, fruttosio, lattosio, maltodestrine (sciroppo di glucosio), proteine del latte, proteine di soia, amidi e fecole nativi o modificati per via fisica o enzimatica, spezie, gelatine alimentari, aromi, nonché gli additivi consentiti.”

 

 

 

 

 

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