Quell'Oltrepo Pavese che non conosci. Quando una gita diventa un viaggio nel piacere.
- diTestadiGola
- Ti potrebbe interessare Dove ti porto, La recensione
Doveva essere una semplice gita fuori porta per visitare un territorio, e invece si è trasformata in un incredibile viaggio alla scoperta di una terra feconda di idee, abitata da uomini generosamente impegnati e felicemente coraggiosi.
Poteva essere una banale capatina a mordere e fuggire qualche specialità tipica – qualsiasi cosa voglia dire – e invece, grazie alla guida sicura di Alfredo Leoni di Top-Wine – col quale ormai stringerò una joint venture! – , è diventata una strabiliante festa di ingredienti e prodotti, generati dal più felice dei matrimoni, quello tra la ricchezza della terra e la sapienza di chi sa ascoltarla e assecondarla.
Potrebbe restare una cartolina, solo da incorniciare ormai, seppur meravigliosa, e invece il piccolo ma profondissimo viaggio nell’Oltrepò Pavese merita un seguito, anzi, lo richiede come un obbligo morale, per chiunque voglia poter affermare di conoscere qual è la vera natura di un territorio, di una regione, addirittura di un intero paese.
Perché quello che contadini, allevatori, artigiani e geniali produttori di bontà riescono a fare in quel cuneo tra le province di Pavia, Alessandria e Piacenza, e quindi tra Lombardia, Piemonte ed Emilia Romagna, è una lezione viva all’intera Italia di ciò che tutti i contadini, gli allevatori, gli artigiani e i produttori dovrebbero fare del nostro paese, dando un calcio definitivo ad altri destini industriali.
Tra frutta e ortaggi, api e armenti, latte e vigne, ce n’è ben più che abbastanza per creare un campionario inimitabile che il resto del mondo al massimo potrà assaggiare e acquistare, ma mai eguagliare.
Già alla prima semplice sosta tecnica per un caffè a Rivanazzano Terme, troviamo la sorpresa.
In occasione della festa d’autunno, il paese è gioiosamente invaso di bancarelle e stand preziosissimi, nei quali le bontà locali e le aziende di punta esibiscono la potenza di fuoco che sono in grado di produrre.
La fortuna ci bacia, perché tra le varie postazioni spicca Luca Bonizzoni, l’apicoltura condensata in un essere umano.
Io di mestiere rubo il miele alle api, così esordisce nel presentarsi, offrendo l’immagine migliore di sé e del suo lavoro, compendiando la capacità di assecondare la natura e la prontezza nell’attuare l’intervento umano, ironicamente narrato come un furto.
Senza mai uscire dal binario della leggerezza – come fanno tutti gli uomini seri – assieme alla definizione di ladro di miele, Luca fornisce anche quella di autista delle api: per tutto l’anno, infatti, non fa che trasportare gli alveari per tutto lo stivale italiano, secondo le stagioni, in zone a vegetazione spontanea senza interventi chimici, per poi smielare a freddo e confezionare i vasetti evitando qualsiasi trattamento termico per non uccidere i profumi originari.
Oltre al miele, la sua azienda si sta prendendo belle soddisfazioni anche con il vino, soprattutto con l’ultima DOC della zona, Casteggio di Mombrione, ovvero Barberapuro che fa un anno in legno e un anno in bottiglia prima di uscire o, meglio ancora, riposare ulteriormente prima di deliziare, e il racconto di Luca Bonizzoni, recitato con una maestria da intrattenitore consumato, è così zeppo di dettagli da far sorgere miriadi di curiosità, perciò ci salutiamo programmando già il prossimo incontro a casa sua.
Pochi minuti d’auto e valichiamo di poco il confine della provincia di Alessandria, arrivando a Pozzol Groppo per non dimenticarcene mai, e dico mai, più.
Affiancato da Alfredo Leoni nella illustrazione di una delle tante mirabilie della sua azienda, ecco ad accoglierci Marco Bernini, che non è certo secondo a Bonizzoniquanto a ruberie, dato che si definisce ed è scherzosamente conosciuto come il ladro di muffe.
Per la cronaca, quelle due bottiglie le fa Stefano Milanesi, entrambe metodo classicodi puro Pinot nero, con il Fleadh rosé e il Vesna Nature, rispettivamente almeno 23 mesi sui lieviti il primo e 34 il secondo prima della sboccatura, dopo la quale si prosegue a dosaggio zero, e che a Milesi piace far maturare nella cantina di Bernini perché qua anche le pietre sembrano recare in sé proprietà mirabili.
E qui per il cronista si aprono infiniti spropositati, salti tra mondi paralleli, viaggi nel tempo veramente trascorso e in quello reinventato dalla memoria, con cifre stilistiche che oscillano tra Rocambole – non a caso, sulla parete campeggia un fascinoso Diabolik – e i racconti di pirateria, su un uomo che non si è perso niente di tutto ciò che avrebbe potuto fare e che non si lascia incasellare in alcuna scatoletta etichettata a esigenze di chi ne parla.
Non sto a ripercorrere quanto già favoleggiato sul personaggio Marco Bernini e che si trova diffusamente in rete, ma ammetto esser stato spiazzante sentirgli dire, mentre distribuiva assaggi delle sue creazioni casearie, che per lavoro – tanto per dirne uno dei mille svolti – se ne andava a fare caccia grossa al posto dei ricconi che ufficialmente avrebbero dovuto loro imbracciare le armi, e invece fingevano, per scappare con le proprie amanti, così lui gli ammazzava qualche animale da trasformare in trofeo per poi dimostrare di essere davvero stati a caccia.
Sbalorditivo è uno degli aggettivi possibili, una di quelle parole che di solito riteniamo eccessive, e che invece associate a Marco Bernini, al modo in cui fa il pane, il formaggio, il vino, ma che dico, persino i lavori in muratura, l’arredamento di casa, l’abbigliamento, diventano le uniche parole per raccontarlo in maniera realistica.
Quando vedi il pane trionfare sulla tavola qualsiasi aspettativa è già saltata, per la forma, la mole, la colorazione, ma quando scopri che quel pane non ha lievito di birra, bensì è fatto con lo stesso procedimento per fare la birra, e che i suoi sentori si possono classificare esattamente come le più importanti tipologie di birra, a saltare è la tua capacità di mettere insieme tutti i pezzi del puzzle che compongono l’inventiva di Marco.
Dentro ci sono più di una dozzina di frumenti antichi differenti, coltivati con Andi Fausto – del quale assaggiamo anche laBarbera – luppolo nell’acqua e malto per dar vita a una lievitazione prolungata e a un prodotto eccezionale che Marco vive invece come espressione di semplice quotidianità.
Ora qualcuno potrebbe dire che in fondo esiste già un rapporto tra la birra e la panificazione, per il discorso dei lieviti.
Ma che cosa risponderesti se io ti dicessi che il vino – base Barbera – che sta colmando il bicchiere in foto è fatto anch’esso con aggiunta di lieviti per la birra?
Niente, non diresti niente, perché quando varchi la soglia di casa Bernini devi solo buttare nella valle antistante tutti i tuoi preconcetti e lasciar vivere i sensi, perciò lo bevi e gongoli anche tu in questa felice incredulità.
A questo punto un’idea te la fai: Marco Bernini non fa che proiettare sé stesso anche nel suo lavoro, e poiché in lui convivono le anime più disparate – e chissà come le tiene insieme – ecco che anche nelle sue invenzioni cerca di far convivere ciò che normalmente non convive.
E questo principio, applicato ai formaggi, ossia alla sua principale attività, diventa quel tratto di inconfondibile, introvabile, unico nella nostra e in chissà quante altre galassie.
Naturalmente il pane è sempre pane, e quando è così buono merita di essere mangiato così com’è, o al massimo valorizzato da un olio capace di tenergli testa.
E Marco ha anche questo, ottenuto dalle piante calabresi della famiglia di sua moglie che lui si è preso la briga di portare dallo stato di quasi abbandono a una condizione di salute miracolosa, stillandone un olio che imbeve il pane così come il suo gusto imbeve le tue papille per spostare un po’ più in là la tua personale asticella dei confini del buono.
Sulla lunga tavola i salami di Varzi – con la chicca di quello al Barbera – attirano non poco, assieme a coppa e peperoni, e viene facile a tutti staccare altro pane per appoggiarcene un po’.
Ma da una caldera fumante d’olio esce l’ancor più canonico e appropriato gnocco fritto, gonfio al punto giusto da poterlo aprire e trasformare in piccolo scrigno nel quale custodire prima del morso decisivo gli agognati salumi.
E sicuramente tra Barbera in bottiglia e Barbera nel salame ci si potrebbe ritenere coperti, se non ci mettesse il suo zampinoAlfredo Leoni.
Così, oltre all’abbinamento territoriale c’è anche quello per contrasto, con questo Philipponnat Royal Réserve Brut, e la magia delle bollicine in grado di alleggerire il grasso pastoso dei salumi si rinnova, per non parlare di quanto sia elegante nella sua natura di Champagne ma in grado di farsi bere con naturalezza come un vino.
Prima di dare spazio ai protagonisti principali delcasaro Marco, c’è tempo e spazio per una grigliata che è carnale anche nella sua concezione.
Nel forno che ha gonfiato mirabilmente il pane, infatti, c’è brace vigorosa perfetta per avvampare i migliori tagli.
Pala alla mano, il calore è così intenso che a Marco non bastano i guanti, e per trasportare il catino con la brace fino alla griglia deve isolarsi usando due tocchi di legna, ma la missione si compie.
Sotto il nome di tagliata nei ristoranti ti propinano qualsiasi cosa, facendo un gran polverone tra tagliate dette tali in quanto ottenute dal taglio effettuato sul quarto dell’animale, tagliate nel senso di controfiletto che spesso è usato per fare questa portata, e tagliate che si riferiscono al tagliare a strisce la carne una volta cotta, ignorando totalmente di che tipo sia la carne stessa.
Questa carne arriva dalla Nuova Cascina Lombarda di Colturano ed è del primo tipo, cioè tagliata dal fianco e messa in concia sottovuoto, pronta da grigliare, e a chi pensasse che si tratta di una leccornia dai costi improponibili dico che costa molto, ma molto, ma proprio molto meno dei tagli di prima scelta nella grande distribuzione.
Mentre la carne cuoce, Marco ci racconta con spirito divertito dell’ultima impresa compiuta con il vicino e amico Eugenio Barbieri per conto diRai Uno, con la quale già da anni Barbieri collabora cercando di far conoscere la cultura contadina agroalimentare della zona, e di come abbiano giocato in questo esilarante filmato – dal minuto 21 – che ha il pregio di raccontare l’importanza del lavoro caseario di Marco Bernini e il valore aggiunto dell’ironia.
Proprio dal Podere Il Santo di Barbieri arriva il Rairon, ovvero uva rara e Barbera, che sicuramente potrà unirsi alla succulenta carne nel migliore dei matrimoni del gusto.
L’equilibrio del vino, che conserva perfettamente il frutto ma regala quell’alcolicità e un filo di tannini, si riverbera nella perfetta cottura di una carne che la concia amplifica in sapidità, a dimostrazione che sapere dove trovare buoni prodotti è una competenza altrettanto importante del saper produrre o cucinare.
In realtà, tutti abbiamo vissuto questa parentesi della grigliata come una sorta di inganno del tempo, perché non vediamo l’ora di smarrirci nei formaggi e nelle magie del ladro di muffe.
Se un illustre precursore della chimica come Paracelso affermava che l’alchimia serve a separare il vero dal falso, qui vero e falso si divertono a intrecciarsi, in barba a chi convenzionalmente crede di possedere una verità intoccabile.
Così Marco non teme e si diverte a presentarci la sua versione del Monterbo – al quale ha anche modificato il nome – formato da latte vaccino ed erborinato in bianco.
E qui il senso di stranezza si fa vertigine, ma io ve la risparmio e mi carico l’onere di riassumere: quando un formaggio sviluppa le tipiche muffature erborinate dalle tonalità blu-verdi, ci troviamo di fronte a una gamma di formaggi ben nota, sia in Italia che all’estero, dal gorgonzola al Rocquefort, ai vari blu fino allo Stilton.
L’alchimista Marco Bernini, quando vuole trasferire le caratteristiche gustative di questi formaggi in altri tipi di prodotti, e senza creare colorazione, ruba la parte adiacente alle striature colorate e la reinocula nei formaggi che prepara, ottenendo così un formaggio bianco che però ha l’erborinatura nel gusto.
Non si tratta dunque di furti e falsificazioni, come scherzosamente si dice, ma di spostare da un prodotto all’altro caratteristiche interessanti per il palato.
La lavorazione in blu appare in questo fratello dello Stilton di latte vaccino, mentre a destra c’è uno zola in bianco sposato con uva passa e vincotto, e in mezzo il ’68, cioè la bomba, un cacioricotta avvolto da cera e miele, che di quest’ultimo ha assorbito ogni sfumatura aromatica possibile.
Da quest’altra parte un compendio di dove può osare Marco: a sinistra, lo stratosfericoblu de Bahia, ovvero una base di latte vaccino unito – chissà come lo sa solo lui – conacqua di cocco, e incastonati nella forma ci sono pezzetti d’ananas macerato nelrhum e ciliegie fatte morire nella cachaça, mentre a destra un geniale puzzone si fa ricoprire da una coltre di crusca edibile.
Abbinare non è facile a questo punto – e non è nemmeno obbligatorio – perché qui ci vogliono bicchieri capaci di corrispondere in termini di aromaticità, speziatura e persino dolcezza, soprattutto con i formaggi più sapidi.
Tentativo apprezzabile, il malvasia passito Poggio Grimodi 2012, che però non copre la gamma intera dei formaggi dispiegati in tavola.
E invece di ripiegare sulle altre bottiglie già aperte, Marco ricorre a un colpo in controcorrente.
Non verrà fuori la pietra filosofale, ma dalla continua rimescita dei due bicchieroni scaturisce un sidro che, assieme alla tradizionalemostarda, riesce a dire la sua anche con gli intensi caci di questo re-inventore dei sapori.
Ci avviamo alla fine, in questa prima domenica di ora solare, col cielo che cala le tende del buio, e l’arrivo dei dessert.
Dolci intonati all’ambiente, tra brioche e torta di amaretti, purezza degli ingredienti, sapienza artigiana nell’impastarli e sfornarli, in perfetta coerenza con il percorso cominciato a tavola all’ora di pranzo e che felicemente si adagia nel caffè della sera.
Chi scrive, e soprattutto chi racconta, conosce bene la sensazione a volte frustrante nello scoprire che il vissuto, ciò che hai percepito, che ti ha toccato, e che vorresti trasferire sulla pagina, trasmuta, svicola, sembra concedersi a entrare di misura nelle tue frasi, per poi farsi beffa delle parole, lasciandoti perplesso, come se fossi riuscito a trasmettere solo una piccolissima parte di quella ricchezza che è ancora serbata nella tua memoria.
Sono grato ad Alfredo Leoni per avermi fatto da nocchiero in questo viaggio al termine del gusto, e prendo il serio impegno di continuare a cercare persone come Marco Bernini, perché oltre al piacere di raccontare ai lettori le delizie che sanno creare, il primo a uscirne più vivo e vero, più in contatto con la terra e la verità che ha da dirci, sono io.
di Sergio Cima
[slideshow_deploy id=’7489′]