Quando si lavora di continuo, quando ci si sofferma a pensare alle tante cose che dovresti ma che non riesci a compiere ed improvvisamente provi a compensare un vissuto trapassato, quando resta il languore per immagini, visi e profumi che hanno colonizzato l’anima, ecco che la gastronomia ci soccorre.
Si assiste ad un volo di luci e di ombre che solcano, felicemente, il nostro orizzonte tecnologico, quello quotidiano che persino le immagini familiari ci condannano a subire (i giovani millennials con lo smartphone tra posata e tovagliolo, tronfi di impropria quanto insopportabile sicumera), imprinting cioè capace di riportare al presente immagini, quelle care dell’Alta Murgia, in cui le greggi e gli armenti sono il colorante vivente della storia e del paesaggio rurale, con il ricordo delle lunghe camminate in cerca dei funghi carboncelli, quando la Madre Murgia non era stata ancora “deflorata” da dispositivi assurdi come quelli che incentivavano dapprima lo spietramento e, dopo, la messa a riposo dei terreni (set a side).
Qui la civiltà della tavola (con l’inevitabile supporto del vino), tanto vilipesa dai multitasking di cui sopra, ci riconcilia con il tutto, restituendoci la giusta sintesi tra cibo, fame, piacere ed umanità, confermandosi una delle poche autostrade percorribili, insuperabili per efficienza di comunicazione e di facile utilizzo, di cui ci affascina la sempiterna attualità.
Si mangia dapprima ciò che si ha intorno, poi se le scelte ecologiche ci porteranno a considerare altri percorsi alimentari, ci soccorre la consapevolezza che almeno in cucina, ed a tavola, domina la libertà, che per lo meno ci si riconosce questa residuale forma di democrazia…
Intanto, però, che non ci si abitui a nutrirsi con matrici alimentari un po’ “alternative”, credo che questo piatto faccia storia a sé, così come la “tiella di riso patate e cozze”, anch’essa forte di mito e sostanza della gastronomia rivierasca.
La spasarola (non sforzatevi di cercare in rete la traduzione, non esiste), un insieme di prodotti atti a sostenere, anche in guisa di piatto unico, le umane fatiche e le gioie del desco.
Forse la potremmo chiamare, in un modo molto diffuso al Sud d’Italia, una “tortiera di agnello e vegetali”, un arcaico Tajine di araba memoria, una pietra miliare che afferma, se mai ve ne fosse bisogno, la storia silvo pastorale delle popolazioni che da queste parti sono insediate da secoli.
Forti di questa arcaica provenienza da cui scaturisce supremazia e sopravvivenza, andiamo con gli ingredienti.
Per il gratin
Disporre in una teglia la carne a pezzi, le patate a fette spesse e le cipolle tagliate grossolanamente.
Aggiungere i pomodorini tagliati a metà; condire con sale quanto basta (valutando la sapidità del canestrato che si ha a disposizione) ed amalgamare in modo da rendere tutti i componenti baciati dall’extravergine.
Cospargere il tutto con il pangrattato, il formaggio ed il battuto di aglio e prezzemolo, aggiungendo una pioggerella di pepe nero in grani schiacciato grossolanamente.
Infornare a temperatura piuttosto bassa (160 °C) per la prima ora di cottura con tegame coperto da carta da forno per favorirne gli spifferi laterali; completare la cottura rimuovendo la carta da forno per un’altra ora.
A gratinatura completata, sfornare e lasciare rassettare la spasarola.
N.B.: se i lampascioni sono grossi, sbollentarli dopo pulizia e lavaggio per favorirne la deamarizzazione.
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