Terre di Franciacorta Rosso del Castelletto 2001 Castel Faglia

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Non ho mai fatto mistero con nessuno della mia passione per le bollicine rosse. Tant’è vero che il primo articolo che ho dedicato a un vino italiano in lingua straniera, pubblicato in due puntate a causa delle dimensioni del testo, incontenibili per sentimento e per foga, è stato sui Lambruschi.

Che siano briosi, vivaci, frizzanti o spumanti, a seconda della forza spumeggiante che esprimono, mi piacciono alla follia molti Barbera e Freisa del Monferrato, come tanti Bonarda e Sangue di Giuda dell’Oltrepò Pavese, per non parlare del Barbacarlo, della Vernaccia di Serrapetrona e di alcuni Raboso del Piave.

In famiglia, infatti, ormai si sono messi il cuore in pace e non mi fanno più notare che con questi malandrini simpaticamente spumeggianti se ne va alle ortiche l’abituale misura di due calici a pasto che mi sforzo (anche se a fatica) di non superare per tutti o quasi i vini tranquilli. Il tappo speciale a molla per mantenere il vino in pressione a lungo per ottenere una bella spuma anche il giorno successivo ce l’ho. Recuperato in un momento di buoni propositi, fa anche la sua bella figura fra quegli utensili casalinghi esposti all’ammirazione degli ospiti. Lo metto sempre anche in tavola, augurandogli buon lavoro, ma confesso che quando una bottiglia è aperta  se ne va in onorata pensione tutta intera e lascia quel gingillo piuttosto scornacchiato.

È diventato perfino normale non chiedermi nemmeno perché, quando andiamo in ferie, allungo sempre (e non solo di qualche decina di chilometri) il percorso per godermi senza nebbia quelle strade dell’Emilia Romagna che fanno saliscendi sui numerosi argini dei corsi d’acqua del bacino del Po oppure slalomeggiano fra i portici degli antichi borghi. Lì ci sono le mie trattorie di campagna predilette e i miei circoli popolari preferiti dove non era raro trovare anche Pavarotti. Senza una sana iniezione di cucina emiliana e di buon Lambrusco, a prezzi salutari, non ci sono ferie che tengano.

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E così un vero amico, avventuratosi fino alle mie latitudini con la moglie e i due figli piccoli, si è fatto carico di percorrere centinaia di chilometri riempiendo il bagagliaio anche con una simpatica sorpresa per me: due cartoni di ogni ben di Dio rosso e col tappo a fungo. Lo so che molti di voi penseranno che i regali si fanno con i vini che finiscono in …aia o comunque tra quelli più incensati, tristellati, pentagrappolati o pluribicchierati. Ma con le salamelle alla griglia che diffondono tanto profumo e allegria in giardino, oppure con una forma aperta di grana padano o di parmigiano reggiano magistralmente scavata nel cuore per poter mettere in bocca delle scaglie sempre morbide, che cos’altro ci vuole se non un signor Lambrusco ”maschio”, quello più secco? Ah! Se penso a quanti altri vizi ha invece questa gioventù moderna che ha già dimenticato perfino quant’è buono il formaggio con le pere…

Mi ha sorpreso però, perché non me lo sarei davvero aspettato, che un bel giorno fra quelle bottiglie portabandiera della primavera emiliana destinate a sparire in pancia con le saporite leccornie della cucina di una di queste ”farmacie dei sani” (come soprannomino le osterie e le trattorie di campagna) ce ne fossero due di un vino rosso tranquillo forestiero, lombardo ortodosso, un Castelletto Curtefranca Rosso fatto in prevalenza con uve cabernet franc e sauvignon, barbera, merlot e nebbiolo, un vino bresciano che proviene da quella zona sotto il lago d’Iseo che è maggiormente coltivata per fare vini spumanti con il metodo classico. La cosa mi ha incuriosito, cos’era successo per accogliere cotanto forestiero?

È successo che una quarantina di anni fa la famiglia Cavicchioli (che produce Lambruschi importanti, tra cui dei gioiellini come il Vigna del Cristo Lambrusco di Sorbara e il Col Sassoso Lambrusco Grasparossa di Castelvetro) si era innamorata dei vigneti di Rita Barboglio, circa 17 di ettari sulla più alta delle colline moreniche della Franciacorta, in media 300 metri, dove sorge un castello costruito in ciottoli, in modo caratteristico, dal colonnello Faglia. E così nel 1989 dal fruttuoso sodalizio tra i Cavicchioli e Rita Barboglio è nata lassù una bella cantina in località Boschi di Cazzago di San Martino.

Non certo allo scopo di fare dei rossi, per carità! Questa è una zona vocata ai bianchi e proprio da qui proviene anzi un metodo classico eccezionale, ma un po’ di spazio per i vitigni più robusti del rosso tradizionale è stato tutelato, perché i Cavicchioli hanno il cuore d’oro tipico dell’Emilia Romagna, una regione di gran lavoratori, generosi, dal genio che tutti conosciamo e che con il rosso ci sanno fare davvero, ce l’hanno proprio nel sangue. A partire dai rossi bolidi di Maranello che ci hanno sempre regalato emozioni stupende col cavallino rampante della Ferrari, rientrata ormai nella leggenda dopo aver sofferto come non mai in tutta la sua storia.

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Ma per ottenere i meritati successi di olio di gomito ce ne vuole tanto, nessuno ti regala niente. Tanto meno una viticoltura che è fatta di sacrifici veri, tanta pazienza, niente grilli per la testa e una notevole caparbietà, tutte doti che illuminano il viso di quei vignaioli infaticabili che a ottant’anni ancora danno l’esempio e l’anima nei vigneti. In alcuni dei suoi viaggi in Polonia ho incontrato e cenato con Guido Cavicchioli che mi parlava di suo padre, sempre al lavoro in vigna per tutta la vita, un uomo che ha sempre preferito il Lambrusco di Castelvetro a temperatura ambiente, mentre lui, nato a Sorbara, ha sempre prediletto il Lambrusco di Sorbara e per giunta più freddo, forse più adatto a stemperare le arsure provocate dal tabacco dei toscani. La loro famiglia possedeva già tre aziende agricole: ”Due Madonne” a San Prospero e ”Forcirola” a Staggia, a pochi chilometri fra loro, e la ”Bastiglia” per i vini bianchi, nel paese omonimo.

Nella scelta di passare il Po e impegnarsi anche in Franciacorta si sono viste subito entrambe le generazioni a confronto, sì, ma sempre a braccetto. Con Rita Barboglio, l’agronomo Paolo Cavalleri e l’enologo Sandro Cavicchioli, si era formata immediatamente una bella squadra e ne era uscito subito il Terre di Franciacorta Rosso del Castelletto di Castel Faglia. Questo vino era prodotto in quantità piuttosto limitata, circa 9.000 bottiglie soltanto in ognuna delle ultime, favolose, annate del secolo e nella prima del secondo millennio, ma ha sempre riscosso un buon successo per una caratteristica che lo distingue piacevolmente dagli altri rossi vinificati in Franciacorta, peraltro molto territoriali.

Si distingueva infatti per un bouquet limpido, privo di quelle note più o meno accentuate di fumo che sono piuttosto diffuse in questa DOC e abbastanza tipiche, come mi spiegò tanti anni fa l’enotecnico Jemmallo Alessandro, allora appena diplomato ma già con le mani in cantina (e proprio con un rosso franciacortino), con tanta soddisfazione del padre, enotecaro a pochi passi dalla Borsa nel centro storico di Milano.

Per venire incontro quindi alle richieste della clientela si era reso necessario mettere a dimora altri filari e con la loro entrata in produzione si era passati alle circa 50.000 bottiglie dell’annata 2001, un vino che incuriosiva per aver guadagnato un bouquet di aromi molto pulito e per il suo brio gustoso, fresco, pimpante. Un vino, tra l’altro, sempre a un prezzo conveniente anche dopo il successo e perfino quando ha cambiato il nome appunto in Castelletto Curtefranca Rosso. Oggi il terreno da cui provengono le sue uve è misto, ma molto sassoso, sistemato a terrazze. L’impianto delle viti è a spalliera, con potature a cordone speronato. Vendemmia in ottobre, macerazione delle uve diraspate a temperatura controllata di 25°C per tre, quattro settimane e fermentazione a contatto con le bucce. È vinificato tutto in acciaio e affinato in bottiglia, per scelta aziendale, in modo da mantenere tutte le fragranze delle uve vendemmiate a ottobre, raccolte manualmente in cassette, diraspate e vinificate con 3 o 4 settimane di macerazione per un taglio che si aggira sul 70% tra cabernet sauvignon e cabernet franc (in un rapporto normalmente di circa 6 a 1) con il 10% per ciascuna delle altre tre: barbera, merlot e nebbiolo. Maturato brevemente in botte di rovere, tenore alcolico del 12%.

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Il colore è rosso vivo e trasparente. L’aroma è ricco dei frutti rossi della primavera, in primis ciliegie e ribes rosso. Sapore asciutto, di medio corpo, armonico. È un vino veramente piacevole da bere, caratteristico, che invita alle buone pietanze dell’ospitalità contadina e non disdegna di figurare bene a tutto pasto, come si conviene a un vino che non è nato per scioccare qualche degustatore, ma per accompagnare la buona tavola e il buon umore delle allegre brigate.

Fare il vino così, in scioltezza, è una vera passione, unita però ad una ferrea determinazione. Non ci si accontenta di niente di meno del meglio, secondo regole antiche, ma sempre attuali: rispetto della natura, non usare mai sotterfugi per accelerare i tempi di vinificazione e maturazione, ma assicurare sempre la genuinità del vino. E poi basta tirare dritti per la propria strada, senza disquisire troppo di vitigni e di vini nei salotti televisivi o nelle occasioni mondane, rinsaldando invece il legame profondo, quasi viscerale, con la terra e la tradizione, con i profumi sottili emanati dai ceppi e dalle uve, com’è appunto nel carattere dei Cavicchioli.

Altri sicuramente rimarranno ben impressionati dai sei Franciacorta DOCG di quest’azienda della linea Monogram e dagli otto della linea Castel Faglia, in fondo questo straordinario territorio li premia con le sue finezze, ma cosa volete? I Franciacorta sono degli eccellenti spumanti e in quanto tali ben difficilmente certi guru e certe guide alla moda riusciranno a convincere qualche produttore a stravolgerne la natura, come invece è successo negli ultimi anni a una moltitudine di vini rossi che hanno invece smarrito la personalità nell’eccesso di legno per la fretta di emergere e di competere. Questo rosso no, è sceso dalla sua collina con passo garibaldino e spensierato ed è entrato nella mia vita con una ventata di primavera. Se il buon giorno si vede dal mattino, allora sì che la ruota sta girando per davvero e nelle cantine sta rientrando finalmente quel buonsenso che se n’era allontanato per inseguire altrui chimere, pardon, chimerrique

 

Mario Crosta

 

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