There’s a New Menù in Town. L’ultimo grido del Drink Kong
- Stefano Gallerani
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Se Patrick Pistolesi fosse uno di quelli che si accontentano, allora oggi, fermandosi e voltandosi indietro, non potrebbe rendersi conto che in poco più di un anno il progetto che, tra quelli già realizzati, più gli somiglia, ovvero il cocktail-bar Drink Kong di Roma, è entrato di prepotenza nel gotha di https://www.worlds50bestbars.com , si è aggiudicato il Campari One Two Watch Award e è diventato un punto di riferimento per l’ospitalità e il bere miscelato nella Capitale. Se Pistolesi fosse uno che si accontenta, guardandosi intorno non potrebbe andare giustamente fiero di essere una delle personalità che più ha contribuito a rinsaldare quel senso di appartenenza e quell’idea di comunità che in dieci anni (a simbolicamente datare dall’apertura, in Vicolo Cellini, del Jerry Thomas Project – primo speakeasy tricolore) ha fatto di Roma la protagonista indiscussa della miscelazione italiana e una delle realtà più interessanti della scena europea. Se Patrick non fosse quella virtuosa e gorillesca mesaillance di irlandesità e italianità in salsa romana… No, non lo so cosa potrebbe essere, ma so quello che è: Patrick Pistolesi è anche Livio Morena, Davide Diaferia, Alessio Zaccardo e tutti i ragazzi della sua squadra: una famiglia allargata che a Roma festeggia ogni sera il proprio Ringraziamento davanti a un bancone, benedetta da una bottigliera scintillante e levando calici “spiritosi” alla fantasia e alla creatività; Patrick, infine, è quel gorillone instancabile che, sedici mesi dopo la sua apertura, ha lanciato il nuovo menù del Drink Kong: New Humans.
Vicino alle esperienze più stimolanti di questi ultimi anni (la miscelazione “moderna” di Matt Whiley, aka “Talented Mr Fox”, e Rich Woods, detto “The Cocktail Guy”, o il minimalismo inventivo di Remy Savage, anima parigina del Little Red Door prima e del Syndacat ora), la risultante è pura “Kong-way-of-life”: uno stile in cui la tradizione, perfettamente conosciuta e padroneggiata, è rispettata ma non idolatrata, e la sperimentazione non ha altro scopo se non quello d’essere funzionale al risultato finale. L’asse intorno al quale ruotano tutte e 21 le nuove ricette – il “flavour”, o sapore – è declinato in cinque grandi famiglie dalla spiccata personalità. Come per la prima carta, dominata dal colore, il messaggio è chiaro, diretto e istintivo (ma molto opportuno, in questo secondo corso, aggiungere in chiusura la specifica degli ingredienti di ogni cocktail: tra il consumatore e il bar si deve instaurare un rapporto di fiducia, sì, anche scoprendo le carte).
In “New Humans”, i cinque sapori principali – sour (acido), bitter (amaro), savoury (salato), sweet (dolce) e umami – lasciano il posto a Newmami, Holus, Kudamono, Herbs&Herbs e Sukoshi: cinque archetipi (ma anche cinque prototipi) basati su una specifica esperienza del gusto e sulla paletta cromatica che gli corrisponde. Ciascun gruppo, a sua volta, contiene almeno quattro ricette (cinque, nel caso di kudamono) che possono finire, a seconda della tecnica di miscelazione e delle loro componenti, in una coupe (la classica coppetta da cocktail), in un un highball (il bicchiere alto e stretto), in un Old Fashioned (quello basso e largo), in Wine Glass (c’è bisogno di spiegare di che si tratta?) o in una Miso Bowl (sì, esatto, proprio la ciotola in cui si serve la zuppa di miso, perché a PP toglietegli tutto ma non il “suo” Giappone).
Oltre che per categorie, all’ingresso del menù le ricette sono illustrate per “leggerezza”, “corpo” e “complessità”, in modo che il cliente possa scegliere la personalità del drink (ad esempio: “lo voglio corposo” o lo voglio “strutturato”) e quindi il gusto (“lo voglio strutturato e erbaceo” o “corposo e fruttato”). Ma visto che parliamo di gusto (o meglio sapore, ovvero flavour), poiché un criterio vale l’altro, andiamo per ordine: Newmami è la versione Kong dell’umami, una parola che vuol dire “saporito” e indica uno dei cinque gusti fondamentali percepiti dal cavo orale (perché porti un nome giapponese lo si deve a Kikunae Ikeda, il chimico di Tokyo che lo ha identificato nel 1908);
in questa famiglia sono presenti cocktail con base differente e tutti caratterizzati da una spiccata complessità (io la chiamo struttura); tra questi, una menzione speciale spetta al “Rasna”, un Old-Fashioned in cui il bourbon incontra il fungo shitake, si profuma con un cordiale home-made, si addolcisce con il miele e si equilibra con una componente citrica: assolutamente da provare. Il secondo gruppo di ricette, Holus (in latino, verdura), è dedicato al mondo vegetale e vi assicuro che il modo in cui vengono lavorati cavolo, finocchio, lattuga e piselli è fantastico: accostando il bicchiere al naso, la loro essenza arriva semplice, decisa e evocativa sposandosi perfettamente, al primo sorso, con gli altri ingredienti. My besties? “Savoy C” (base mezcal) e “Peaky” (base rum).
Ciascun gruppo, a sua volta, contiene almeno quattro ricette (cinque, nel caso di kudamono) che possono finire, a seconda della tecnica di miscelazione e delle loro componenti, in una coupe (la classica coppetta da cocktail), in un un highball (il bicchiere alto e stretto), in un Old Fashioned (quello basso e largo), in Wine Glass (c’è bisogno di spiegare di che si tratta?) o in una Miso Bowl (sì, esatto, proprio la ciotola in cui si serve la zuppa di miso, perché a PP toglietegli tutto ma non il “suo” Giappone).
La terza schiatta è una ventata di freschezza; un misto di leggerezza e corpo in cui verde lascia il posto al dolce naturale dei frutti della terra: kiwi, mirtilli, albicocche e more danno vita a interessantissime e inaspettate eco di Margarita (l’ “Ultrakiwi”), Cosmopolitan (il “Freya”) o Alexander (l’ “Echoes of Bananas”): gli anni Ottanta 2.1, insomma. Assaggiateli e non ve ne pentirete. La penultima line-up, poi, Herbs & Herbs, è dedicata al “bere all’italiana”, una storia d’amore fatta di aperitivi e digestivi, tra amari (Lucano) e bitter (Campari), vecchie glorie (Select) e new-entry (Italicus rosolio); stella indiscussa della famiglia, il “Bitter Apes” (Monkey Shoulder Blended Scotch Whisky, Campari, Chartreuse Vert e Kong Cordial): se per stoicismo masochistico riuscite a berne meno di tre, pago io il conto.
A chiudere, la quinta rastrelliera, Sukoshi, è dedicata a cocktail con gradazione alcolica moderata e ci dimostra empiricamente, ovvero nel miglior e più persuasivo modo possibile, come questo non significhi per forza meno gusto o meno creatività. Insomma, nemmeno questa volta Patrick Pistolesi si è accontentato: sovrastando il rione Monti a due passi dalla casa dove, quattro secoli fa, il pittore bolognese Domenico Zampieri, detto il Domenichino, ha riparato “dalla guerra implacabile dell’invidia”, Paddy ha alzato di nuovo l’asticella per qualità, competenza e, quello che più conta, per visione. Come recitava il filosofo, provare per credere: andate, fatevi coccolare e, almeno per una sera, siate più che umani: New Humans.
(*Una nota d’obbligo: dal 21 maggio il Drink Kong, come molti locali romani, è aperto nel rispetto delle nuove normative di sicurezza: per dare un segnale, per offrire un riparo, per non smettere di credere che It was Beauty that killed the beast. È vivamente consigliata la prenotazione).
sito web: (QUI)
Stefano Gallerani è nato il 4 ottobre del 1975 a Roma, dove vive lavorando in televisione. Suoi articoli e saggi sono apparsi su «Alias», supplemento letterario de «il manifesto», “l’Unità”, “Il Mattino” e “Playboy”. Collabora con le riviste «Il Caffé Illustrato» e «L’Illuminista». Altri contributi sono apparsi su “Nuovi Argomenti”, «Alfabeta2», «Il Giannone», «Allegoria» e «Reportage». Nel 2014 ha pubblicato “Albacete” (Lavieri). Il suo ultimo libro. “A Buenos Aires con Borges” è uscito nel giugno scorso per i tipi di Giulio Perrone Editore.