Un salto a Pesaro fra i vini delle Marche
- Mario Crosta
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Chi ha vissuto a lungo in Sardegna ben difficilmente si tufferebbe nelle sabbiose acque dell’Adriatico, esattamente come chi si è beato a lungo dei grandi Nebbioli ben difficilmente riuscirebbe a godersi un altro gran vino.
Per fortuna il nostro bel Paese riserva però tante sorprese con la sua incredibile varietà ed uno dei piaceri più raffinati rimane sempre quello di ritornare dopo molti anni in luoghi conosciuti magari da bambini, attirati dal ricordo di un castello, di una piadina calda col prosciutto crudo, di una vacanza passata in compagnia di persone amate che non ci sono più. La memoria fa rivivere delle emozioni stupende, fa ritrovare strade e trattorie, frantoi e vigneti, in un mondo che nel frattempo è cambiato, ma che in certi angoli conserva ancora le tradizioni di un tempo, lo stesso amore per la qualità della vita, là dov’è attaccato alla sua terra ed ai suoi vini come ad autentiche chiavi per il proprio futuro. Basta uscire un po’ dalle autostrade e seguire le stradine dei ciclisti che s’inerpicano dove le velocità sono da dimenticare e si rientra in questo regno delle favole con la sua aria che frizza di campagna, di profumi e di sapori che ai supermercati non arrivano, di opere d’arte e d’architettura che rifioriscono per l’amore di chi le conserva e le restaura, nella pace e nella tranquillità di quei territori stupendi che sono state difese a spada tratta di generazione in generazione.
La signora Maria, che gestiva un albergo a Rimini nei favolosi anni sessanta, quando ci vedeva tornare frastornati dalle immense sale giochi o dalle balere ci accompagnava sulla spiaggia, ci indicava Gabicce Monte e ci diceva che da lì cambia il mondo (ma anche il mare diventa cristallino, sottolineavano i bagnini più anziani ed il nostro Pippo, un simpatico gelataio dell’Algida che percorreva chilometri a piedi fra gli ombrelloni con la cassetta termica a tracolla). Là sulla cima c’era la più famosa terrazza sul mare del mondo, quella che ispirava tutte le canzoni più fischiettate mentre ci si fa la barba, con le sue luci e la sua musica era il simbolo di un’epoca che però non c’è più, di un sano modo di divertirsi che è finito con la crisi energetica e le prime targhe alterne, di un vero mito dei giovani di allora. La terrazza c’è ancora, ma in pietoso stato di abbandono. Eppure da qui (aveva ragione la signora Maria) il mondo cambia davvero, ancora oggi.
Più a sud c’è il borgo murato con il castello di Gradara fra le dolci colline che vanno verso la pittoresca Urbino, più in là i castelli di Jesi con il magnifico Verdicchio, che senso ha tornare giù in autostrada per rientrare nella bolgia di tutti i giorni e in una società che sta impazzendo? E via sulla vecchia strada panoramica fra i colli pesaresi, Casteldimezzo, Fiorenzuola di Focara, la pineta del colle San Bartolo con la villa-castello dell’Imperiale, un percorso mozzafiato per la sua bellezza, con tratti di falesia a picco sul mare dai versanti marini e boschetti, frutteti e vigneti dagli altri. Non è un caso che Pavarotti da queste parti abbia comprato una villa…
Qui però non offrono più volentieri il Verdicchio leggero e rinfrescante che si trovava una volta, piuttosto Trebbiano e Sangiovese dei Colli Pesaresi. ”Non li vuole più nessuno”, dicono, eppure sono ancora a buon prezzo e hanno un innegabile vantaggio: fanno ridere, riportano il sorriso dove c’è tristezza. Ci dicono che ”ormai vogliono tutti la barrique” e provo allora a sorseggiare un Pertinello, buono, ma non è proprio in carattere con la tipica genuinità del posto e allora ecco che si può andare a cercarlo giù verso Pesaro, dove torna l’allegria nel girare tutti a piedi a godersi il centro storico, bellissimo. A partire dal Caffè Ristorante Pizzeria di fronte al municipio sulla gran piazza del Popolo con la fontana, a zonzo per tutte le viuzze tipicamente affollate di biciclette, per tutti i vicoletti di questa città rossiniana da godersi straordinariamente nella sua meravigliosa vivibilità, con tante enoteche e ristorantini ben riforniti di vino.
Pesaro è veramente bella, aveva ragione la signora Maria, di giorno e di notte. La mia enoteca ristorante preferita era nella tranquilla via Perfetti al 18, aperta soltanto la sera, quel Cantuccio di Leo che è chiuso dal 2015, ma si trovano tanti posti dove il trattamento è davvero cordiale e professionale, a cominciare dal vino. Per chi non si può permettere le bottiglie intere, ci sono anche le mezze bottiglie offerte dalle case vinicole più prestigiose, ma non solo. Si possono degustare i vini anche a bicchiere, cosa faccio spesso sia con i bianchi che con i rossi delle Marche, cominciando per esempio da un buon Colli Pesaresi Sangiovese Riserva Galileo dell’Azienda Guerrieri. Un ottimo vino dal colore rosso rubino tendente al granato, con un profumo netto, speziato, di marasca, frutti di bosco e che in bocca ha un sapore morbido, avvolgente. Un vino di grande struttura e dal finale persitente che va aperto un po’ prima di berlo. Proviene da viti allevate a cordone speronato che non producono più di 1,5 kg di uva per pianta, subiscono il
diradamento precoce dei grappoli dell’uva che vengono selezionati per migliorare la qualità finale e raccolti in vendemmia tardiva. La vinificazione avviene con 15 giorni di macerazione delle uve, vinificazione in rosso a temperatura controllata di fermentazione, affinamento per
12 mesi in botte grande e altri 12 in bottiglia.
Quando la temperatura e l’umidità delle cantine sono ben regolate, la voglia e la sequenza degli assaggi si fa terribile. Finchè non spunta un vino che era comparso per la prima volta nel 1993e che era già allora un’autentica rivelazione per la consulenza di Romeo Taraborelli, uno dei più arditi fra gli enologi impegnati nella ricerca e nell’esaltazione della qualità: il Rosso Piceno Superiore Roggio del Filare 1998 dell’Azienda Vitivinicola Velenosi, creata da Angela ed Ercole Velenosi nel 1984 con un totale rinnovamento della struttura, degli impianti e dei vigneti precedenti, poi con l’acquisizione di nuovi appezzamenti e la costruzione di una nuova cantina per vini da sole uve di proprietà. Oggi ha quattro cantine con 2 milioni e mezzo di bottiglie prodotte sotto le cure di Filippo Carli e Luca Fioravanti, con i consulenti enologi esterni Attilio Pagli e Cesare Ferrari.
Allora ci volevano però molto coraggio e amore per la terra per credere nel Rosso Piceno, quando tutti glorificavano soltanto Barolo e Brunello di Montalcino. Erano in pochi a ritenere che il Rosso Piceno con la qualifica di Superiore (proveniente cioè da un’area delimitata del territorio collinare marchigiano in provincia di Ascoli Piceno, ristretta a quattrordici comuni tra Appignano, Offida e Ripatransone) fosse uno dei vini più interessanti dell’Italia centrale. Le particolari condizioni pedologiche e microclimatiche di questa zona non sono per niente omogenee ed obbligano tutti i vignaioli a fatiche supplementari nella conduzione dei vigneti e nella composizione ottimale delle uve dei vari vitigni. La vendemmia qui dev’essere effettuata in periodi diversi per poter raccogliere le uve soltanto nei momenti opportuni, quando tutti i valori sono quelli giusti, e questi durano pochissimi giorni. Ogni anno le caratteristiche delle uve provenienti dai diversi vigneti, soprattutto di Montepulciano e di Sangiovese, sono estremamente differenti e quindi devono essere utilizzate in percentuali varianti ed integrate con altre uve permesse dal disciplinare per poter garantire vini equilibrati e di qualità costante, il che non è per niente facile.
Il Roggio del Filare è fatto con uve montepulciano al 70% e sangiovese al 30% raccolte nei vigneti di proprietà a Castorano alla metà ottobre (qui la densità è di 5.000 ceppi per ettaro, la resa è di 1,2 kg in media per pianta, cioè 65 quintali per ettaro) con vendemmia manuale di mattina presto o nel tardo pomeriggio in piccole casse poste in celle frigorifere, prima di arrivare in cantina. La vinificazione avviene in fermentini di acciaio termocondizionati utilizzando il metodo della macerazione a freddo computerizzata per 28 giorni al fine di mantenere a temperature rigidamente controllate la fermentazione del mosto fiore ottenuto per spremitura soffice. La maturazione avviene in barrique nuove per 18 mesi, che mantengono il mosto in fermentazione a temperature un po’ più basse, ciò che conferisce al vino un maggior bouquet, ed è stato affinato in piccoli fusti di rovere francese.
Il profumo si sente da lontano quando viene stappata molto delicatamente la bottiglia, con la candela accesa per la decantazione che però non ritengo sempre necessaria, forse è meglio che il vino si riprenda serenamente riposando un po’ nella bottiglia aperta per tempo e respiri con calma grazie agli impercettibili movimenti interni dovuti all’evoluzione delle temperature e agli scambi di ossigeno nella materia viva. Colore luminoso, ma concentrato, rubino cupo con riflessi più accesi e che diventano sempre più brillanti mano a mano che l’aria entra nel bicchiere. Gli aromi sono molto intensi e soprattutto puliti, dominano la ciliegia, la marasca, l’amarena. Roteando il bicchiere si avvertono anche ribes rosso, ribes nero, mora, mirtillo e prugna. In bocca è ampio, morbido, caldo, con qualche accenno di liquerizia, spezie e lacca, di ottima stoffa e con un finale fruttato e persistente, in armonia con dei tannini ben domati.
Pane, stuzzichini vari e patatine vengono a questo punto irrimediabilmente e generosamente allontanati, proprio non vanno d’accordo con quello che questo grande vino richiama fortemente, cioè piatti con tartufi e funghi, timballi, vincisgrassi, strozzapreti e soprattutto carni rosse arrostite, brasate, stufate, selvaggina e formaggi stagionati, se ne sente già il profumo nell’aria. Mai lasciare i vini da soli in compagnia di se stessi quando invece la loro vocazione è fare i re di ogni buona tavola e donare piacere nella beva, non quella di essere roteati nel calice e sputati dopo averli sommariamente giudicati.
Sarà forse per questo che questi locali si riempiono a sera inoltrata, dopo il teatro, com’è abitudine da queste parti, un mondo così antico eppur tanto moderno, ma soprattutto lontano dal frastuono dei divertimenti delle spiagge romagnole e rivolto ad un turismo della piacevolezza, frutto di un sano rapporto tra una città a dimensione umana e le sue innumerevoli frazioni di campagna con i loro frutti. Pensate che nei viali in riva al mare, in bella fila ordinata con quelle piante ornamentali che si usano in tutte le città delle varie riviere, qui si trovano dei noci e dei noccioli e in molti cortili, gran parte sotto il livello stradale, e perfino delle minuscole vigne casalinghe. Siamo nelle Marche, dov’è cominciato un altro mondo, proprio come diceva la signora Maria, un piccolo paradiso con i suoi grandi vini di carattere, tutti da scoprire, per chi non vuole indolenzirsi con sapori e gusti stravolti dal legno oppure troppo simili a quel modello bordolese con cui per un bel pezzo si è cercato, stoltamente, di colonizzare la vitivinicoltura italiana.
Di formazione tecnica industriale è stato professionalmente impegnato fin dal 1980 nell’assicurazione della Qualità in diverse aziende del settore gomma-plastica in Italia e in alcuni cantieri di costruzione d’impianti nel settore energetico in Polonia, dove ha promosso la cultura del vino attraverso alcune riviste specialistiche polacche come Rynki Alkoholowe e alcuni portali specializzati come collegiumvini.pl, vinisfera.pl, winnica.golesz.pl, podkarpackiewinnice.pl e altri. Ha collaborato ad alcune riviste web enogastronomiche come enotime.it, winereport.com, acquabuona.it e oggi scrive per lavinium.it, nonché per alcuni blog. Un fico d’India dal caratteraccio spinoso e dal cuore dolce, ma enostrippato come pochi.