Una “pizziata” tra amici contro la “cancel culture” a tavola

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Ultimamente il mondo di chi racconta il cibo si è diviso come quello di chi ha attraversato il Covid.

Da un lato coloro che credono nella pandemia e dall’altro i negazionisti, divisi a loro volta tra chi sostiene tesi bizzarre e chi si fa portare per mano da chi le sostiene.

Così un universo che era fatto di giornalisti, blogger (che belle le food blogger di 15 anni fa), gastronomi, appassionati e consulenti è d’improvviso esploso generando due fazioni grazie a chi ha il tempo per cercare il vizio, innescare polemiche, infangare o ipotizzare concussioni e interessi intrecciati.

Come se qualcuno 30 anni di carriera se li mettesse sotto i piedi per un pacco di caramelle.

Sta di fatto che chi inquina i pozzi lo fa con sistema e intelligenza e tra le operazioni principali da portare avanti c’è di sicuro la “cancel culture”, ossia l’operazione di cancellare l’esistenza di un qualcosa che è parte della cultura.

In un certo qual senso questo è quanto è accaduto a molti che si sono visti cancellare dal panorama gastronomico del quale farebbero parte di diritto per storia per accurate operazioni di marketing e gruppi di interesse pilotati.

Giorni fa, con la fine del periodo estivo agostano, ho voluto riaprire l’anno con una bella pizziata con amici e colleghi giornalisti.

 

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Il luogo scelto in maniera condivisa a “suffragio universale” è stata l’Antica Osteria Pepe di Caiazzo dei fratelli Massimo e Nino Pepe, a loro volta fratelli dell’arcinoto Franco.

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Il perché di questa scelta sta proprio in quella “cancel culture” che i nostri amici hanno subìto nel tempo e nel volere un posto che fosse lontano da “riflettori”.

Ci hanno posizionato in terrazza con un bel freschetto che non sentivamo da settimane.

I fratelli Pepe ed in particolare Nino sono tra gli ultimi in Campania e forse in Italia ad impastare a mano e non per 30-40 pizze ma per numeri davvero importanti.

In cucina e pizzeria (una fossa di veri leoni) il figlio di Nino e tanti ragazzi poco più che ventenni.

La pizza dei fratelli Pepe non ha scienza. È  “scientificamente” ignorante, semplice nel gusto, entusiasmante nel complesso. Acqua, farina, lievito e sale.

 

Nessun impasto messo alla luce della stella polare o terminato a doppia velocità fino ad incordare.

Olio di gomito e quasi 100 anni di capacità.

 

È lì dal 1931, a partire dal capostipite, nonno di Nino e Massimo, attraverso il padre al quale Nino somiglia in maniera impressionante, e poi i figli, si fa la pizza sempre nello stesso modo, sempre impastando nella stessa maniera, senza parecchi vezzi di farcitura. Poche pizze e tutte vocate alla semplicità.

Prezzi assolutamente alla portata di tutti. Nota che di questi tempi fa piacere a famiglie e ragazzi.

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La pizziata è partita con la loro montanara fritta che per leggerezza ricorda le paste sfoglie delle patisserie francesi e il loro crocchè di patate, quest’ultimo così come me lo ha sempre raccontato mio padre classe 1928.

Morbido dentro di sole patate, nemmeno tutte schiacciate bene e croccante fuori con panatura e sale ben visibile.

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Ci accompagna Ottouve di Salvatore Martusciello.

Arriva il calzone con la scarola. Il calzone di casa Pepe.

Quello fuori sembra pane e dentro ha la scarola gialla (non quella verde e dura) le olive e i capperi. Un morso delicatissimo. Di base vegetale ma carnoso per la croccantezza della scarola che è messa da crudo.

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Quello che si è fatto sempre in questa pizzeria e poi si è detto che era nato altrove. Quello che Nino fa da ragazzino.

Nel frattempo al nostro tavolo arrivano i vini di Bianchini – Rossetti. La linea è quella del “Mille880” con un fresco rosato 2022, una falanghina e il Saulo, un Falerno del Massico ancora giovane.

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Nel mentre si mesce arriva la Mastunicola con i fichi. Booom!

Strutto, conciato romano e fichi freschi. Alcuni di noi hanno girato gli occhi all’indietro e quasi perso i sensi in una sindrome di Stendhal gastronomica.

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Apriamo l’unica straniera della serata. Una magnum Vite Colte Alta Langa, collezione privata Luciano Pignataro.

Ci sta decisamente bene con il pinot nero vinificato in bianco.

Precisiamo. Non abbiamo imbroccato la temperatura di un solo vino!

Si chiude la pizziata e si va via senza una margherita? Arriva la Margherita “corretta”, battezzata da me per non sottrarre meriti ad altre margherite.

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Se vi fate un giro qui prendetela come entrée di benvenuto!

Ma sorpresa! Nino e Massimo hanno fatto preparare da Mimmo La Vecchia de Il casolare una mozzarella.

Nella specie una treccia da 3 kg che è una roba da standing ovation.

La mangiano tutti. Anche gli intolleranti al lattosio. Del resto il latte si dà ai bambini e quindi non potrà fare male

Qualcuno vorrebbe il dolce, la zuppa di soffritto, ma il clima non lo consente e allora si ripiega su qualcosa di meno pretenzioso. Un calzone classico. Ne facciamo portare solo due anziché 3.

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Alcuni come me hanno già issato bandiera bianca.

Questa la cronistoria di una serata goliardica e piacevole ma che racconta di come la storia possa urlare la verità e che spesso sta a chi fa questo mestiere credendoci raccontarla nella sua verità, senza alterazioni dello storytelling, nella piena e insindacabile costituzionale libertà di stampa.

Se volete provare il brivido di essere normali, di sentirsi sazi e soddisfatti senza il portafogli alleggerito notevolmente veniteci.

Ma portate con voi solo la voglia di divertirvi.

Niente paragoni qui. La storia non li consente!

 

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