Ungheria: i vini rossi di Eger
- Rolando Marcodini
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L’Ungheria non ha soltanto il vino Tokaji, è una terra grande come l’Italia settentrionale ed è molto vocata al vino tanto da produrre almeno 3,1 milioni di ettolitri di vini bianchi e rossi da circa 83.000 ettari per poco meno di 9,7 milioni di abitanti con un consumo procapite di circa 32 litri l’anno.
Attualmente molte case vinicole occidentali investono in Ungheria e vi producono eccellenti vini, per esempio Bodegas Vega Sicilia con la sua Tokaj Oremus, Axa Millésimes con la sua Disznókő e Antinori insieme con Péter Zwack (Unicum) e Jacopo Mazzei a Szekszárd con la Bataapati Estate.
A circa 130 chilometri da Budapest, lungo la strada che va verso Est e il Parco Bükki Nemzeti, nella stupenda Valle delle belle donne tra i monti Mátra e Bükk, zona di bagni termali e terreno da tufi vulcanici e loess, si estendono gli oltre 5.600 ettari di vigneti già vitati nell’agro della città di Eger, famosissima per aver bloccato le orde ottomane nel 1552 con uomini e donne armati dall’eroe nazionale István Dobó, ricordato nei quattro giorni di festa, tornei, danze e giochi in costume che gravitano intorno alla grande fortezza ogni anno a fine luglio tra fiumi di buon vino.
I vini rossi qui sono schietti, asciutti, corposi, sapidi, infiammanti, dal colore rubino e con tannini molto fini, di carattere tanto vigoroso che solo dopo vari anni di maturazione e affinamento possono diventare vellutati e avvolgenti, ma non molti produttori hanno tutte le disponibilità finanziarie occorrenti e immettono in commercio vini a mio parere ancora acerbi, che richiederebbero invece attenzioni più prolungate. Sono vini sinceri, ma un po’ più ruvidi di ciò che in occidente ci si aspetterebbe.
Il gusto ungherese del vino rosso è attratto da un’acidità leggermente superiore a quella normalmente apprezzata in occidente, perciò è meglio precisare che anche i parametri di descrizione in etichetta del vino rosso secco (dry in inglese o száraz in ungherese) oppure abboccato (semidry o félszáraz) sono da interpretare in tal senso. Un buon Chianti potrebbe essere definito dagli Ungheresi come félszáraz, cioè abboccato. Potete immaginarvi quanto siano molto più aciduli del prevedibile i vini rossi ungheresi giovani etichettati come dry o száraz, senza l’obbligo di scrivere anche… ”baby”!
L’Ungheria è molto affezionata ai vini di Eger, consigliati particolarmente con le carni scure dell’abbondante selvaggina di pelo, con la cacciagione di piuma, con le carni rosse degli allevamenti tutta erba e fieno o con gli arrosti d’oca ruspante e di agnello delle sane campagne circostanti. È difficile valutare questi vini lontano dalle cucine cui sono sicuramente diretti, anche perché entrano nella preparazione di gran parte delle prelibate pietanze ungheresi per la maestria dei cuochi, inoltre regnano incontrastati in tavola, ma non solo… La cucina ungherese è fondata praticamente sul peperoncino piccante (paprika), specialmente quello rotondo e un po’ più grosso di una ciliegia e che è un vero sputafuoco, nonché sulla cipolla usata in modi infiniti, anche solo per insaporire l’olio e magari poi gettarla, e infine sul vino.
Gli ungheresi amano gusti forti e decisi nelle loro prelibatezze, la loro cucina è salubre e nutriente, non è per niente monotona, soltanto non può fare a meno di peperoncino piccante, cipolla e vino, sebbene aggiunti armoniosamente all’insieme degli altri ingredienti. E non ci sono santi che tengano, se si vuole spegnere la sete che sapori tanto prepotenti sanno mirabilmente accendere, ci vuole il vino.
Il vino più indicato è l’Egri Bikavér, cioè il Sangue di Toro di Eger, prodotto in gran parte con uve kékfrankos (blaufränkisch) dal 30 al 60% con l’aggiunta di almeno altre 2, ma anche di più, tra le 12 ammesse per il Superior e il Grand Superior (blauburger, cabernet franc, cabernet sauvignon, kadarka, kékoportó, ménoire, merlot, pinot noir, syrah, turán, zweigelt e il kékmedoc detto portugieser, oppure tra le 13 varietà ammesse per il Classicus (in più si può mettere la bibor kadarka). È un vino che nasce da ingegnosità indiscutibili, data la complessità di equilibrio tra simili forti componenti.
Si raccontano diverse leggende sull’origine del nome, una dice che gli eroi di István Dobó, durante la difesa della fortezza dall’assedio turco bevessero molto vino e duellassero senza nemmeno pulirsi la barba, dando ai nemici respinti nei corpo a corpo l’impressione che quella forza sovrumana gli derivasse da qualcosa che somigliava al sangue di toro, già conosciuto a quei tempi come ricostituente naturale. Che siano stati i turchi a chiamarlo in questo modo è senz’altro vero, ma per altri e più comprensibili motivi. Poiché la religione impediva loro di bere vino e siccome la cucina piccante delle locande che razziavano imponeva la necessità di spegnere comunque il fuoco in gola, non essendoci niente altro di più adatto in cantina faceva comodo chiamare con questo nome ciò che spillavano dalle botti.
A differenza degli assediati, non bevevano forse l’aperitivo fondamentale tramandato fino ai nostri giorni, le famose quaranta gocce appena seduti a tavola, un piccolo bicchierino pieno di trasparente palinka, cioè non d’acqua ma di… sangue di un’altra cosa! Del resto, il piacere gastronomico anche nei secoli passati è sempre stato composto di due elementi, la pietanza e il vino. Soltanto in caso di armonia dei due componenti si può parlare veramente di piacere, perché il vino giusto esalta le delizie della cucina.
Tra i piatti più popolari, soprattutto per i turisti, ci sono i gulyás (gulash) preparati in molte varianti e che sono arrivati in Ungheria al seguito delle tribù nomadi magiare, che andavano letteralmente matte per i gulyás fatti con pezzi scelti di carni diverse (maiale o cavallo). Le ricette moderne sono basate su quelle antiche tradizionali, con poche varianti e aggiunte successive, per esempio le eventuali patate e i pomodori. La zuppa dove cuociono le carni dev’essere densa, consistente, ricca di spezie e, naturalmente, di peperoncino piccante. Ciò che fa letteralmente strage fra gli impreparati è il battuto di peperoncini piccantissimi freschi e tritati che viene aggiunto a cucchiaiate alla zuppa, mantenuta in calore anche sulla tavola dentro i tradizionali paioli per il tempo necessario al consumo, moltiplicando la sete di vino. Il quale, va sottolineato, in questa terra benedetta non viene mai bevuto a stomaco vuoto.
Un altro piatto tipico molto buono è’ la zuppa di pesce halászlé, preparata a seconda del luogo e dei pesci disponibili, con un brodo di coda, pinne, testa e vari pesciolini più piccoli e che alla fine viene passata per diventare una crema densa oppure rimane com’è con l’aggiunta di pezzi di pesce. Ovviamente, è piccante.
Questi piatti hanno invaso tutta l’Europa al ritmo forsennato della ciarda, tipica danza delle feste, al tempo dell’impero austroungarico e sono molto noti anche in occidente.
Altre pietanze come il pörkölt, il bogrács e il lecsó sono entrati nelle abitudini alimentari dei popoli centro-orientali confinanti con l’Ungheria, stemperandovi in tutto o in parte il sapore piccante a causa soprattutto delle bevande abituali diverse, come la birra che non va per niente d’accordo con il peperoncino rosso. Piuttosto farebbe l’amore col miele, che sulle montagne slave è aggiunto alla birra scaldata nel pentolino sui piani delle stufe, due o tre cucchiai pieni per litro, e che non è per niente male con le rigide temperature invernali.
L’Egri Bikavér riserverà delle sorprese nei prossimi anni, perché proprio a seguito di nuovi investimenti in quel Paese, le cantine si stanno attrezzando molto meglio e possono finalmente concorrere fra loro nella ricerca della qualità migliore, anche se con tanti sacrifici e saggia prudenza. Con l’eccezionale struttura e l’ottima materia prima che possiede, ha soltanto bisogno di liberarsi dalla necessità di realizzo immediato che è ancora comune a tutte le imprese degli stati impoveriti dalla cortina di ferro, appena usciti dal tunnel. Di produttori seri e impegnati onestamente su questo fronte ce ne sono parecchi, anche aziende statali o a partecipazione statale, ma fra quelli che meritano una maggiore attenzione da parte dei consumatori consiglierei in primis Jan Bolyki, József Simon, Lajos Gál, Gróf Buttler, Orsolya Pince, Nimród Kovács, St. Andrea, Thummerer, Ferenc Tóth, Béla Vincze, Tamás Pók, Zoltán Simkó e poi Böjt, Havas & Timár, Bukolyi, Gajdos, Juhász Testvérek, Ostorosbor e Petrény.
Anche se la strada degli investimenti è lunga e ha bisogno dei riscontri del mercato per consolidare i risultati dei perfezionamenti, le soddisfazioni non mancheranno certamente, l’Egri Bikavér è avviato a diventare uno dei più grandi vini d’Europa, il vino rivelazione del prossimo futuro
Eseguendo attente e costanti analisi del contenuto dei mosti in fermentazione c’è ancora chi stoppa le fermentazioni a un tenore alcolico generalmente inferiore a quello tradizionale che potrebbe arrivare perfino al 15%, rimanendo piuttosto intorno all’11 o 12% con un gusto più abboccato e a prezzi più popolari, cosa che a me non piace proprio, perciò bisogna stare molto attenti negli acquisti soprattutto del tipo Classicus. Si tratta in genere di vini industriali prodotti in serie, sfornati in volumi elevati e che, secondo il mio modesto parere, riescono ancora a penalizzare la reputazione di vino di qualità di questa regione.
Per fortuna, dagli anni ’90, quando i vigneti hanno cominciato a tornare nelle mani di piccole e medie aziende vinicole, la regione ha lavorato per ridefinirsi e ricostruire la propria immagine di qualità. Uno dei primi passi è stato quando la comunità vinicola locale ha adottato un codice di produzione più rigido nel 1997, seguito successivamente dalla benvenuta introduzione dei nuovi livelli qualitativi superiori con le tipologie Superior e Grand Superior. Eger è anche un altro buon esempio di produttori di vino che collaborano per promuovere l’immagine di qualità della regione.
Rolando Marcodini
Ha smesso di giocare in cortile fra i cestelli dei bottiglioni di Barbera dello zio imbottigliatore all’ingrosso per arruolarsi fra i cavalieri di re Nebbiolo e offrire i suoi servigi alle tre principesse del Monte Rosa: Croatina, Vespolina e Uva Rara. Folgorato dal principe Cabernet sulla via dei cipressi che a Bolgheri alti e stretti van da San Guido in duplice filar, ha tentato l’arrocco con re Sangiovese, ma è stato sopraffatto dalle birre Baltic Porter e si è arreso alla vodka. Perito Capotecnico Industriale in giro per il mondo, non si direbbe un “signor no”, eppure lo è stato finché non l’hanno ficcato a forza in pensione da dove però si vendica scrivendo di vino in diverse lingue per dimenticare la bicicletta da corsa, forse l’unica vera passione della sua vita, ormai appesa al chiodo.