Il risveglio delle cucine slave pone interrogativi al vino italiano.

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Fino a qualche anno fa nei ristoranti e nelle trattorie di tutti gli angoli degli Stati orientali accolti dal recente allargamento a est dell’Unione Europea c’era una ripetitiva offerta di pietanze e di bevande piuttosto comuni su tutto il territorio nazionale.

Stupiva non poco quella scarsità di ricette regionali e la pratica assenza di piatti prettamente locali. Specialmente ai turisti italiani, abituati alle gite fuori porta e alle ferie in posti molto diversi fra loro, dove si può andare a gustare una miriade di prelibatezze differenti in locali che privilegiano da sempre la tipicità degli aromi e dei sapori del posto, una tale realtà abbastanza uniforme e in molti casi noiosa appariva come una evidente contraddizione.

In montagna, al lago, sul fiume, al mare o in città distanti tra loro fino a quindici ore di automobile, proprio dove ci si aspettava una benvenuta tradizione di altre fantasie culinarie, i menu e le liste delle bevande risaltavano invece di più per la monotonia delle proposte. Si potevano misurare le differenze soltanto riguardo alla freschezza e alla qualità degli ingredienti, ma non di ricette veramente curiose e assolutamente locali, tanto da far pensare a una imposta omogeneità che da noi, al contrario, non è mai esistita. Da escludere, dunque, un’oppressione di regime.

Da mettere in conto piuttosto una maggiore identità unitaria di questi popoli orientali, che sono senz’altro più uniti del nostro, anzi che questi sono già popoli e il nostro non ancora. Per fare un esempio, la Polonia dove vivo esiste da ben più di mille anni, mentre l’Italia unita ha solo un secolo e mezzo di vita, lo è amministrativamente ma restano ancora da fare gli Italiani… perciò sia come tradizioni che come lingue o dialetti parlati, usi e costumi, attività agricole e cucina, nel nostro Paese fiorisce appunto l’abbondanza delle varietà, la ricchezza delle diversità sul piano artistico e culturale. E la cucina, che è arte e allo stesso tempo un atto d’amore, ne guadagna in rigogliosità.

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Ungheria: Gulash di maiale o cavallo

Ma non c’è solo questo. Durante sei lunghi anni d’invasione, i nazisti hanno perseguitato e soggiogato fino all’internamento nei lager e all’eliminazione fisica gli occupati secondo un piano ben preciso che è cominciato con i libri bruciati in strada per colpire subito l’anima di un intero popolo, i suoi riferimenti storici e culturali e quindi le persone a ciò dedicate, una strategia di sterminio a partire dalla testa pensante per spezzare la trasmissione dei millanta rivoli della tradizione. Insieme a intellettuali, artisti, maestri, professori, pittori, musicisti, professionisti, ricercatori, insegnanti, anche i cuochi hanno pagato con la vita in un numero elevatissimo, forse nella totalità o quasi, tanto che non ne sono risultati fra i sopravvissuti al gas e al camino. Un polacco su tre è stato assassinato durante l’occupazione nazista, come se in Italia avessero cancellato interamente tutto il Piemonte e tutta la Lombardia, una tragedia che ha lasciato segni ancora profondi, non dimentichiamolo mai.

Le ricostruzioni dalla guerra e le repubbliche popolari sorte nei Paesi liberati dall’Armata Rossa non hanno potuto perciò riportare le cose alla realtà precedente a simili tragedie proprio per la mancanza di scritti e di esseri umani che sono stati bruciati, e anche in cucina si è sofferto il drammatico taglio con le tradizioni, l’eliminazione di ricette e di cuochi, lo spegnimento della vivacità, la mancanza di fantasia dovuta alla necessità di combattere prima la miseria.

Dall’ingresso nell’Unione Europea, diciamo da una ventina d’anni, le cose si sono ribaltate, ma non così velocemente perché questi Paesi sono rimasti molto impoveriti e soltanto da poco le imprenditorialità rifioriscono in tutti i settori, non ultimo quello dei fornelli, dove adesso si riesaltano finalmente perfino quelle tradizioni più dimenticate o che sembravano totalmente scomparse negli ultimi cinquant’anni. Non c’è, purtroppo, nessuna politica di rinascita, perché il Paese vive nel mito del liberismo, come in America, che è molto più vicino all’arrangiarsi ognuno da sé piuttosto che al sostegno intelligente e guidato al recupero di un patrimonio comune da tutelare e sviluppare. Tuttavia nelle trattorie e nei ristoranti si comincia però a intravvedere il risveglio delle cucine slave e soprattutto delle tipicità, un processo favorito da ottime trasmissioni televisive per promuovere il turismo, anche quello gastronomico.

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Polonia: i ravioloni Pieroghi

Davanti a trattorie e ristoranti non si vedono più le file degli avventori che stazionano a soppesare con molta attenzione il contenuto dei portafogli dopo una lettura attenta dei menu affissi alle porte di locali sempre meno grigi e polverosi, anzi ogni giorno più accoglienti e simpatici.

La gente che va in gita fuori porta ultimamente decide quasi sempre di andare non genericamente a mangiare dove si troverà al momento, ma decide già prima ”quel” particolare ristorante dove ci sono le pietanze tipiche di ”quel” posto più per un avvenuto passaparola che per una preventiva ricerca sul web e comunque già a conoscenza delle fasce di prezzo.

A capovolgere le abitudini sono stati i risultati notevoli che i cuochi e i sommelier polacchi stanno ottenendo con il grande riconoscimento non più soltanto degli stranieri, dei politici e degli imprenditori, che erano gli abituali frequentatori della ristorazione di alta qualità, ma anche dal consenso popolare che si allarga sempre più, perché oggi anche nelle vecchie trattorie, nelle storiche osterie, nei localini, nelle baite o addirittura nei chioschi dei posti più impensati si possono assaggiare cose molto, ma molto diverse da quelle fatte in casa propria e in altre località del Paese.

La rivalutazione dei tradizionali piatti delle bisnonne e delle nonne riporta alla luce autentici capolavori di cui si erano perse le tracce, inoltre le scuole professionali di oggi attingono con creatività a quel generoso passato e nei famosi ristoranti tornati al privato si fa molto più evidente l’impronta e lo stile dei cuochi e dei titolari, insomma la rinascita è meravigliosamente in corso. Questo introduce un problema che prima non esisteva, e cioè quali bevande abbinare adesso a quei cibi rimasti per troppo tempo nella noiosa forbice tra la birra e la vodka.

Le cucine slave sono completamente diverse dalle cucine mediterranee fin dalle fondamenta e cioè sistemi di allevamento e di macellazione, tecniche di conservazione degli insaccati, scelta delle speziature, verdure e frutta a disposizione, inoltre non si può dimenticare che l’inverno è molto lungo e molto freddo e richiede tutt’altre abitudini alimentari e la preparazione di ricette più adeguate a questi climi e alle diverse durate della giornata di luce nell’arco delle stagioni. Con gran parte di questi manicaretti il gusto locale predilige la birra, che non è amara come la nostra e non è dolce come certe francesi e americane, ma gode di uno splendido equilibrio ed è sempre di buon tenore alcoolico (in Polonia si va in media dai 5,6 agli 11,2 gradi). Sulla tavola compaiono anche composte di frutta bollita, tè, succhi di frutta non addensati come i nostri ma limpidi e, naturalmente, le vodke, insieme all’aranciata per eventualmente diluirle e poterne bere una maggiore quantità, ma soprattutto ormai dovunque si trova il vino, che prima era un articolo di lusso e trovava posto, anche se limitato, nei ristoranti più esclusivi.

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Romania: Gli involtini Sarmale di riso e macinato di maiale

L’approccio al vino è sempre stato difficile, non è abitudinario e preferisce sapori spesso in contrasto con quelli che vanno per la maggiore tra i popoli dei Paesi produttori di vino. Il vino italiano si è aperto uno spazio fra le cucine slave in splendida rielaborazione e che non sfornano soltanto cotolette impanate, spiedini, stinco di maiale, zuppa di barbabietole e gulasch, con le solite patate o dolciastre insalate di cavoli, crauti e carote. Ho tradotto dei menu di ristoranti che hanno tagliato coraggiosamente con un già dignitoso passato per fare un benvenuto salto di qualità e ogni volta che ci vado a mangiare scopro delle fantastiche novità da poter offrire finalmente agli italiani in visita, ma c’è sempre quel maledetto problema del prezzo del vino in tavola che non mi fa dormire tranquillo e devo dire che spesso molti dei miei compaesani, vista l’alta qualità della birra locale che è anche più economica, si polonizzano volentieri anche a tavola e… niente vino!

Quanto è difficile il lavoro dei sommelier polacchi, le cui associazioni sono nate con la prima nel 1976 grazie all’esclusivo appoggio dei belgi e dei francesi! Ho sempre lavorato anch’io fin dal 1996 affinché gli scrittori di vino della Polonia e dell’Europa orientale che mano a mano incontravo fossero conosciuti in Italia e e le associazioni italiane del mondo del vino non si limitassero ai contatti ufficiali ma li invitassero ai concorsi e agli eventi. Lo scopo è sempre stato quello di prendere più profondamente in mano il problema degli abbinamenti dei vini italiani con le cucine slave, approfondire gli scambi di esperienze, studiare insieme, degustare pietanze e vini, ascoltando molto attentamente per fare proposte sia ai produttori sia ai consumatori.

Una delle battaglie, se non la più importante, è la temperatura. In Polonia e in genere nell’Europa orientale la gente non beveva d’abitudine bevande fredde. Contrariamente a quello che si pensa, nemmeno la vodka ghiacciata. La vodka si beve liscia a temperatura ambiente, perché ha dei gusti e dei profumi talmente delicati che il freddo li ucciderebbe e sembrerebbe di bere benzina gelata. Chi ha inventato la deleteria moda della vodka ghiacciata non era certamente uno slavo. Ma anche la birra non si beveva fredda e solo dall’ingresso nell’Unione Europea nei punti di vendita si sono diffusi dappertutto anche i frigoriferi a vetrata per tutto l’anno, ma d’inverno ancora la si beve addirittura anche calda e con un paio di cucchiai di miele o di zucchero e d’estate appena fresca (anche con l’aggiunta di un calicino di sciroppo di lampone).

 

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Slovenia: La zuppa Kraška jota di verdure e carne di maiale

Con questi climi e con queste abitudini popolari molto radicate, il vino bianco e il vino rosso giovane, che abbisognano almeno di temperature fresche di cantina e non ambientali, diventano improponibili alla beva e fra i bianchi è ancora un’autentica strage in gran parte delle mescite. Nei ristoranti più lussuosi, dove sicuramente qualche cliente straniero se n’è lamentato minacciando di non tornare, la cultura del vino si è finalmente diffusa e si trovano sempre almeno dei secchielli che vengono velocemente riempiti di ghiaccio come per lo champagne.

A differenza dei vini bianchi e dei rosati dell’Europa centrale e balcanica che sono buoni freschi a temperatura di cantina, i nostri vini bianchi sono prodotti per essere bevuti freddi e non si fanno per niente apprezzare a temperature ambiente intorno ai 21 gradi (quando non oltre) e i consumatori dell’Est rimarranno piuttosto lontani dal nostro vino bianco buono, già penalizzato dal prezzo, perché caldo fa letteralmente pietà, rende acido tutto ciò che finisce in bocca. E non basta insistere nella formazione professionale dei ristoratori e dei baristi, perché comunque nel frigo dove lo mettono normalmente si trova di tutto un po’, dai salumi che qui sono tutti affumicati fino ai formaggi con le muffe, e con i profumi si scivola dalla padella alla brace.

È un campanello d’allarme che va suonato presso i nostri enologi, perché ci vorranno decenni per educare al vino quei popoli che non ne sono abituati, ma nel frattempo cosa facciamo? Occorrono dei vini rossi giovani e dei vini bianchi adatti alle abitudini attuali e ai gusti predominanti dei popoli cui si vogliono vendere. Non possiamo pretendere che in pochi anni questa gente passi dall’ignoranza ai livelli universitari, dagli abitudinari vini piuttosto abboccati a quelli austeri e molto secchi, dall’usuale servizio locale a temperatura ambiente alla gamma di quelle invece più consone ai vini occidentali, né che tutti partecipino subito a dei corsi di sommelier per convincersi a nuove abitudini con i vini.

 

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Russia: l’insalata Shuba di aringhe e barbabietole rosse

Ci vogliono vinificazioni mirate a ottenere prodotti adattabili ai palati principianti e all’uso locale.

 

Del resto anche noi non abbiamo adottato, anzi abbiamo stravolto a nostro piacimento, il loro originale modo di bere appunto la vodka e la birra. Soltanto con il tempo, con grandi campagne pubblicitarie, con l’incremento dei consumi, con l’educazione e con la scuola, in qualche decennio anche tutti gli altri vini entreranno dalla porta principale. Ma per tenere aperto lo spiraglio ci vuole un prodotto di base ad hoc. Quelli che abbiamo oggi dovrebbero essere tutti quanti degli Alsazia per resistere a tanti maltrattamenti, tra cui quello grave delle temperature di conservazione e di servizio, infatti il consumo di vino italiano è bassissimo. Ma anche gli eccelsi vini con grande capacità d’invecchiamento non tengono posizione in mercati tanto vergini.

Il problema è serio, perché secondo me non riguarda soltanto i quaranta milioni di abitanti della Polonia, ma anche una serie di altri Stati e continenti. Con tutti gli enologi di alta levatura e grande professionalità che abbiamo nel nostro Paese, bisognerebbe risolverlo abbastanza velocemente, prima che le Red Bull soppiantino i vini sui banconi dei bar e delle trattorie come sta già avvenendo. Anche perché nei supermercati sono già in corso le svendite di partite intere di vino dalle etichette anche gloriose, che hanno però dei tappi sanissimi facilmente spezzabili dal cavatappi per gli sbalzi di temperatura di conservazione nei magazzini e per l’eccesso di giacenza sugli scaffali di esposizione anche al pubblico, ma soprattutto alla luce e al caldo.

Per inciso, forse il tappo di plastica o quello metallico a vite sarebbe benvenuto proprio sui prodotti da esportare nei luoghi dove non c’è la cultura del vino e non si rispettano le sue regole fondamentali.

Si devono creare vini adatti al mercato dell’Europa centrale e orientale oppure tra non molto ci saranno i primi rifiuti di intere forniture già in viaggio nonché grosse disdette di ordinazioni. Non lo scrivo per le singole cantine, perché il problema è di politica enologica per l’esportazione, è dunque di carattere nazionale e va risolto con l’apporto attivo delle organizzazioni professionali e sindacali di categoria e l’intervento dell’Istituto per il Commercio con l’Estero e dei Ministeri delle politiche agricole e dell’Industria.

Ma se nessuno dei produttori bussa alle porte giuste, mal comune mezzo gaudio e viva gli ungheresi, gli slovacchi, i croati, gli sloveni e i cechi che stanno impiantando vigne a più non posso per produrre vini adatti ai gusti imperanti nei loro mercati, facendola in barba al nostro attuale immobilismo. Come al solito, non ci resta poi altro che piangere e chiedere al maestro che cosa fa rima con Orione…

Mario Crosta

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