Vins de Garage: ovvero i vini che… non ci sono!

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Vi traduco con molto piacere un terzo testo di Marek Bieńczyk

Pubblicato da una delle prime riviste polacche sul vino, Świat Win, che era diretta dallo stimatissimo Zbigniew Pakuła, uno dei pionieri del giornalismo del vino in Polonia già nel secolo scorso, quando stavano cominciando i tempi dell’apprendistato all’estero sui temi dell’enologia contemporanea, aiutati a man bassa dai francesi che con l’Institut de coopération avec l’Europe Orientale (ICEO) avevano fondato in Polonia l’Akademia Wina.

Ricordo con grande piacere anche il prof. Zygmunt Ryznerski e il decano dei giornalisti del vino Stefan Zatorski che sono state le colonne della diffusione cultura e della civiltà del vino in un Paese che allora era tutto birra, wódka e jabole. Meno polemici e più sottilmente ironici di quei guru cui siamo stati invece abituati in Italia, non avevano quelle ”solide certezze” tanto care ai saccenti critici enoici di casa nostra.

L’umiltà e il sano realismo sono stati il loro punto di vantaggio, tutto il contrario del modo di scrivere di qualche nostro santone dallo sguardo ipnotizzante pescato a tessere elogi con sproloqui poetici su vini addirittura dalla dubbia denominazione d’origine, i cosiddetti vini figli dell’autostrada con il cambio di fattura, denominazione e destinazione via fax in cabina, roba che passa(va?) bellamente sotto il naso delle autorità consortili, della GdF e dei NAS. Se il sorriso può far bene alla salute, però, allora ci consola il fatto che davvero tutto il mondo è Paese… come si evince dall’autentica a staffilata che segue ai vins de garage, i vini francesi di culto dove piccolo è bello, buono, caro ma… introvabile.

Il traduttore: Rolando Marcodini

 

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Vins de Garage: ovvero i vini che… non ci sono!

Oggi vorrei dedicare alcune parole a quei vini che, propriamente, non ci sono. Di questi vini, come nelle favole perbene sugli spettri, si parla molto, si scrive, si racconta… ma nessuno li ha mai potuti vedere con i propri occhi.

Sì, forse esagero un po’. Ultimamente, infatti, ho conosciuto un paio di persone che ce li hanno nella propria collezione. Dovrei stringere amicizia con questi fortunati, perché comunque sarebbe l’unica possibilità per provare quegli esseri favolosi (nelle degustazioni questi vini non ci sono mai). Ma basta con questi segreti, chiamiamoli da subito con il loro nome! La cosa riguarda chiaramente i famosi ”vins de garage”, cioè i vini di garage.

Negli ultimi tempi, probabilmente, un tema che abbia impegnato di più la testa degli enofili e, forse, non c’è un oggetto della più oscura concupiscenza quanto queste curiose creature, per la cui conquista si compiono grandi fatiche e si paga un fracco di soldi. Comincio da un breve ricordo.

Alla fine degli anni ottanta, Jean Luc Thunevin, un ex impiegato bancario, aveva comprato per pochi denari due ettari di vigneto a Saint-Émilion. Nel 1991 aveva vinificato nella propria autorimessa (perché non c’era un altro posto) il suo primo vino, detto Château de Valandraud. In un brevissimo arco di tempo questo vino si era conquistato una gran fama e aveva raggiunto dei prezzi straordinari, come pure i successivi delle annate seguenti, molto migliori. Oggi Valandraud è già un vino leggendario, il capostipite dei vini di garage, un monumento vivo della nuova era dei Saint-Émilion.

In cosa consiste la rivoluzione di Jean Luc Thunevin?

Nel fatto che abbia proposto, con tutte le conseguenze e senza l’ombra di un compromesso, la più moderna tecnologia e le sue tendenze.

Oggi questi vini sono già qualcosa di pressoché normale e i metodi dei quali si è servito Thunevin sono generalmente utilizzati da molti, sebbene anni fa scioccavano ancora o perlomeno incuriosivano. Quella che allora sembrava una rivoluzione è diventata una norma, come avviene nelle storie. E quindi: massimo ritardo nella vendemmia (con intensive sfogliature), restrizioni del raccolto senza pietà (con un ruolo immenso del diradamento delle gemme), selezione senza pietà degli acini migliori (nessuna tolleranza per le uve meno mature), controllo precisissimo delle temperature durante la vinificazione, incredibile rispetto dell’igiene, uso di botti nuove della migliore qualità, fermentazione malolattica finita o condotta in botte, maturazione del vino sulle fecce, ”batonnage” in alcuni casi a iosa, rinuncia alla chiarificazione e alla filtrazione del vino.

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Bisogna necessariamente ricordare in questa occasione ancora una persona: Michel Rolland.

Questo amico di Thunevin, ancora il più famoso ”enologo volante” del mondo, proclamava fin dai primi anni di attività le sopra citate regole e il suo influsso sulle trasformazioni degli ultimi anni (la stampa francese le ha soprannominate ”effetto Rolland”) è stato enorme. Rolland ha insegnato ai vignaioli bordolesi che anche da un mediocre ”terroir” che non ha nessun alto punteggio, con gli opportuni sforzi si può ricavare un buon vino.

Sulla stessa strada di Rolland si sono fiondati altri produttori di Saint-Émilion. Proprio la Riva Destra è diventata negli anni novanta e all’inizio del nuovo secolo la regione più dinamica di tutto il Bordolese e non c’è dubbio che oggi attiri l’attenzione degli amatori del vino più che la Riva Sinistra, molto più conservatrice. A Saint-Émilion è affluita e affluisce la maggioranza dei nuovi capitali, si conducono intense analisi geologiche e sorgono continuamente nuovi vigneti. In questo ci guadagnano anche le denominazioni vicine, soprattutto Fronsac e Côtes de Castillon, dove da un paio d’anni sono sorti dei vini molto interessanti, fra i quali alcuni (per esempio Château d’A e Château d’Aguilhe) sono diventati grandi stelle.

Torniamo ai vini dei garagisti.

Thunevin ha trovato molto velocemente i suoi più abili e i suoi meno abili imitatori, tanto che negli ultimi due o tre anni è nata un’intera armata di vini di garage. Alcuni di questi vini superano anche, sotto l’aspetto della qualità, Château de Valandraud.

Come si riconoscono i vini di garage? Dal gusto, per la loro insolita concentrazione e l’enorme estratto; sono vini estremamente ricchi, sensuali, ma per il corpo (non per l’intelletto, come dicono alcuni…). Dal portafoglio, per il suo contenuto… insufficiente. Dal linguaggio, per i nomi alcune volte curiosi, poetici, altisonanti (come “Pierre de Lune” o pietra della luna, oppure “Sanctus” ma anche “Lynsolence”, cui basterebbe cambiare in “i” la “y” e mettere un apostrofo per indicare in francese una sfacciataggine altezzosa). Ma il criterio fondamentale, l’unico verificabile, è la minuscola quantità di bottiglie prodotte.

A Valandraud si fanno 12.000 bottiglie l’anno, 7.000 del primo vino (lo Château, ndt).

E questo è già adesso un limite elevato, poiché ci sono proprietà che fanno da 2.000 a 3.000 bottiglie l’anno. Perciò l’eterna legge della domanda e dell’offerta non ha mai funzionato nel mondo del vino con tanta precisione ed efficienza come proprio nel caso dei vini di garage. Questa legge è molto allettante, purché non adeschi però i vignaioli ai quali da un paio d’anni non è ancora passato per la testa che potrebbero ottenere per una sola bottiglia una cinquantina di Euro! Non tutti i vini di garage, che da anni spuntano a destra e a sinistra, escono vincitori alla prova del palato. In molti casi la materia prima è molto debole e non resiste alla tecnologia applicata. C’è molta ambizione ma scarsa possibilità, si finisce in vini spigolosi, conciati, essiccat, e questa è la parte decisamente negativa della nuova, furoreggiante, moda.

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Ma ho ancora un’altra sensazione, quella che negli ultimi anni il concetto di ”microcuvée” sia diventato appunto sinonimo di vino di garage. Microcuvée significa, proprio come per i vini di garage, che un vino è originato da una drastica selezione dei grappoli, però non di una piccola vigna separata e recintata, come nel caso dei vini di garage, ma di una grande tenuta ed eventualmente di un appezzamento nell’ambito di una grande tenuta. Questa attività è diventata stranamente di moda, già ogni quattro o cinque châteaux (soprattutto i meno famosi) di Saint-Émilion e molti châteaux delle denominazioni di rango inferiore fanno queste prestigiose microcuvée (più volentieri con il 100% di merlot) dal nome appropriato e opportunamente valutate.

Cosa mi mette dei dubbi? Ma proprio il fatto che, comunque la si rigiri, il vino prodotto in una determinata tenuta sarà privato dei suoi grappoli migliori che finiscono invece nelle microcuvée.

Se Château XY fa il suo supervino da una località precisata che ha comprato e dissodato, tutto è in regola. Ma perché espropriare delle sue uve migliori un vino che da anni è stato venduto come Château XY? Perché indebolirlo a favore di un altro vino solo perché à la page? Ammetto di apprezzare molto quei vignaioli che in modo consapevole rinunciano alla produzione delle microcuvée nelle proprie tenute.

In un certo senso è un problema etico e in un altro è filosofico.

Rendiamoci conto che, se Château Lafite si proponesse di fare una microcuvée delle sue uve migliori o delle sue migliori parcelle, significherebbe che se ne andrebbe in rovina tutta la pluricentenaria tradizione di Château Lafite concepita come tenuta indivisibile. Ma appunto, qualcuno si opporrebbe, potremmo ottenere allora un vino incredibile , il record del mondo dei vini, l’apoteosi del vino, qualcosa che l’umanità fin qui non ha mai visto.

Dunque: tradizione o superamento dei limiti? Per adesso è una domanda teorica, però tra poco può diventare pratica. Il Médoc si difende ancora dai vini di garage, tuttavia è già nato Marojalia (denominazione Margaux) fatto dallo stesso Thunevin e altamente apprezzato da Parker, che ha sempre tifato per i vini di garage. Alcuni châteaux (per esempio l’eccellente Rolland de By per 16 Euro) incominciano a produrre le loro microcuvée (in questo caso Haut Condissas per 50 Euro) e il primo sassolino della valanga è già in movimento.

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Come vedete, i miei sentimenti sono confusi.

Non ho dubbi che l’attività di Thunevin (come quella di Rolland) abbia prodotto qualcosa di straordinariamente buono, tra l’altro è grazie a loro che Bordeaux rientra in gioco, pianta nuove vigne e anche quelle vecchie cambiano il modo di pensare. Hanno messo in moto la fantasia dei vignaioli bordolesi che da decenni sedevano come la gallina su un unico uovo, sempre lo stesso. Il livello dei vini si era abbassato e la paura di cambiare era tanta, come effettivamente laggiù non dovrebbe mai essere, e perfino i grandi cru erano stati ripetutamente trascurati. Temo tuttavia la pazzesca corsa verso i nuovi supervini che saranno come delle imprese straordinarie, del tipo scalare il monte Everest senza le bombole dell’ossigeno, oppure saranno degli esemplari unici, come le automobili fatte su ordinazione.

Il tempo ce lo dirà, non sappiamo come invecchiano i vini di garage, perché è passato ancora troppo poco tempo. E, cosa più importante, i loro degustatori e anche i loro autori forse si rendono già conto chiaramente che non si riesce a conciliare il massimo estratto con la finezza e l’armonia. Non si riescono a superare certi limiti, certi principi sui quali si basa la ragion d’essere di un grande vino, come testimoniano alcune caricature di microcuvée nate non soltanto a Bordeaux ma anche nel resto della Francia.

E per finire ancora qualche nome, secondo la stampa specializzata, dei migliori microvini (in Francia li chiamano ”vini da culto”…) insieme con l’augurio di poterli un giorno o l’altro bere.

Péby Faugeres: il vino nasce da 5 ettari che si trovano oltre la tenuta principale (molto buono il Saint-Émilion gran cru Château Faugeres). La Mondotte: grande fama, vinificato da Stephan von Neipperg che è diventato famoso come Thunevin. Rol Valentin: da quattro ettari, vinificato da un’altra grande stella, Stephan Derenoncourt. Andréas: un altro vino creato da Jean Luc Thunevin. La Gomerie: fama assoluta, vino di Michel Rolland, 2 ettari e mezzo. Château L’Hermitage, Gracia (recensioni molto buone, è diventato un vino da speculazione). Inoltre: Balestard, Pas de l’Ane, Saint Domingue, Croix de Labrie P. du Roy, Lusseau (mezzo ettaro), Clos Dubreuil, Château Lavallade (cuvée Roxana, 2.000 bottiglie), Marina Carine (un ettaro), Riou de Thaillas (2 ettari e mezzo).

 

Marek Bieńczyk

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