Vis à vis con Michele Farru
Vis à vis con Michele Farru
Michele Farrù, chef sardo di grande esperienza e docente titolare di Cookie Scuola di Cucina e Pasticceria, rappresenta una figura di spicco nel panorama gastronomico italiano.
La sua esperienza si estende ben oltre il piccolo schermo.
Da più di 15 anni, Farrù insegna nelle scuole alberghiere della Sardegna, trasmettendo il suo sapere alle nuove generazioni.
Il suo percorso professionale è stato arricchito da esperienze in prestigiosi alberghi e ristoranti della Costa Smeralda, oltre a importanti incarichi come personal chef in Inghilterra, Germania e in varie ville private.
Negli ultimi anni, Michele Farrù ha assunto il ruolo di chef consulente, collaborando con industrie alimentari, hotel e ristoranti per perfezionare le sue competenze sia in cucina sia nella pasticceria professionale.
Fortemente legato alla sua terra, Farrù infonde nei suoi piatti l’essenza della Sardegna, con un approccio che coniuga tradizione e innovazione, portando i sapori autentici dell’isola al di là dei confini regionali e nazionali.
Come nasce la sua passione per la cucina?
“La mia passione per la cucina nasce dall’ignoto. Finita la terza media, ho deciso di fare il cuoco. Tutti si chiedevano: “Da dove arriva questa idea?” Semplicemente, credo di essere nato per questo mestiere e per trasmetterlo alle nuove generazioni. Infatti, ho una scuola di cucina e mi dedico anche alla formazione, cercando di restituire ciò che ho imparato dagli altri”.
Essendo anche insegnante e formatore, secondo lei i giovani hanno cambiato approccio alla cucina? Se sì, perché?
“Assolutamente sì. I giovani di oggi sono una “nuova razza”. Noi avevamo un approccio analogico al mestiere: le conoscenze circolavano più lentamente e non c’era il contraddittorio immediato. Oggi, invece, i ragazzi possono verificare subito ogni nozione. Questo cambiamento ha creato una certa difficoltà di dialogo tra le generazioni”.
Ci sarà mai un punto di ritorno?
“Non credo. Piuttosto, serve un nuovo punto di ripartenza. Oggi i giovani non accettano più imposizioni: non basta l’autorità, serve autorevolezza. Chi insegna deve guadagnarsi il rispetto con l’esempio, non con il comando”.
Qual è stata l’esperienza più formativa della sua carriera?
“Per vent’anni ho insegnato in una scuola alberghiera. Quell’esperienza mi ha formato tantissimo, perché stare a contatto con i ragazzi mi ha insegnato a conoscerli e a capire i lati più nascosti del nostro mestiere. Mi ha fatto realizzare che spesso accettavamo condizioni di lavoro medievali solo perché “così facevano tutti”. È tempo di cambiare”.
Cosa pensa dell’intelligenza artificiale in cucina? Può essere utile?
“Tutto ciò che accelera, semplifica e aiuta l’uomo nel lavoro è utile, purché sia l’uomo a gestire la tecnologia e non il contrario. In cucina, per troppo tempo ci siamo concentrati su noi stessi, dimenticandoci del cliente. Il cliente vuole mangiare bene e rilassarsi. Noi dobbiamo fare cibo buono, punto”.
Come bilanca l’anima della Sardegna con le esigenze della ristorazione moderna?
“Io parlo sempre del mio “sardolicesimo”. Parto dalla materia prima sarda, senza seguire rigidamente le ricette tradizionali. La cucina di una volta, molto grassa e oleosa, oggi non funziona più. Cerco di alleggerire i piatti tradizionali senza stravolgerli, accompagnandoli verso una contemporaneità che rispetta l’identità della Sardegna”.
Com’è nato il rapporto con Antonella Clerici? I programmi di cucina in TV ridimensionano il valore dello chef o lo arricchiscono?
“Ci siamo conosciuti nel 2005, quando partecipai a La Prova del Cuoco come cuoco sardo. Quel programma aveva una magia speciale: mi ha insegnato quanto sia importante essere autentici davanti alle telecamere. Dal 2020 collaboro a È sempre mezzogiorno, e siamo già alla quinta edizione. Evidentemente, c’è un motivo. La cucina è una sola: quella fatta bene. Non importa che sia gourmet, casalinga o di un agriturismo, deve essere buona. In video, possiamo trasmettere il gusto visivamente e mentalmente, ma il cibo deve parlare da sé”.
C’è un ingrediente che non userebbe mai nei suoi piatti?
“No, sono curioso e aperto a tutto. Ogni ingrediente può trovare il suo posto, se usato nel modo giusto”.
Qual è un piatto sardo poco conosciuto che meriterebbe più attenzione? Se dovessi creare un piatto che racconta la Sardegna, quali ingredienti userebbe?
“Gli Andarinos di Usini, una pasta di semola fatta a mano su vetri rigati. Oppure il Filio in Deu (Fili di Dio), una sorta di garza di pasta che si serve in brodo. Ci sono ancora tante ricette sarde poco conosciute, ma dal grande potenziale. Userei la panadas di anguille: una sorta di contenitore di pasta fatto con acqua e strutto, che racchiude l’anguilla. Si cucina come una pentola, e quando si apre sprigiona tutto il profumo della storia nuragica portata nella modernità”.
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